venerdì 18 giugno 2010

CASO RESTIVO ... OMICIDIO RITUALE !!! PARTE 2° di RITA PENNAROLA ...

VI INVITO A LEGGERE QUESTO MERAVIGLIOSO ARTICOLO DI RITA PENNAROLA SUL CASO RESTIVO ...




Rita Pennarola [ 02/06/2010] 

In una vicenda costellata di omissioni ed omerta', vissuta all'ombra di potenti prelati ed altolocati massoni, l'appunto sul caso Claps ritrovato nella lista di Diego Anemone apre forse il primo squarcio di verita'. Ecco personaggi e circostanze che collegano i due casi giudiziari, con una zoomata su alcuni particolari inediti nella carriera del rampante imprenditore e dei suoi amici.


La domanda di fondo circola fin dalle prime ore. Praticamente da quando, a febbraio di quest'anno, esplode sui giornali l'inchiesta del gip di Firenze Rosario Lupo sui grandi appalti della cricca, la stessa che vede fra gli indagati Guido Bertolaso. E tutti, man mano che escono i particolari, a chiedersi: ma come e' possibile che una sconosciuta impresa di costruzioni con un modesto capitale sociale sia stata destinataria di opere pubbliche per miliardi? Potevano bastare i soli favori al numero uno del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, a Bertolaso e ad un manipolo di grand commis, a giustificare tanta grandeur?
Ad aprile, grazie alle deposizioni di un ex autista del gruppo, vengono alla luce le entrature del trentanovenne Diego Anemone, leader dell'impresa, con personaggi che contano oltretevere: non solo il gentiluomo del papa Balducci, ma anche don Evaldo Biasini, economo della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Cristo, e soprattutto monsignor Francesco Camaldo, uno degli uomini piu' vicini a papa Benedetto XVI. 
Ed e' proprio la figura di monsignor Camaldo che ci conduce dentro uno dei misteri piu' inquietanti collegati al caso Anemone. Parliamo del caso Claps.

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Dopo il ritrovamento, nella lista dei 400 clienti sequestrata a Diego Anemone, di ben due appunti con la scritta “Claps Potenza”, le ipotesi sul collegamento fra personaggi della cricca e la scomparsa a settembre 1993 della giovane Elisa Claps (i cui resti sono stati rinvenuti poche settimane fa nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinita' a Potenza), hanno infatti cominciato a rincorrersi. Fino a quando Gildo Claps, fratello della ragazza, riprendendo una dichiarazione di alcuni investigatori locali, ha escluso che quel riferimento potesse riguardare la sua famiglia, ricordando che il cognome Claps e' assai diffuso in citta' e provincia.
Eppure sono numerosi i passaggi e i personaggi dell'inchiesta Anemone che riconducono a Potenza ed in particolare a quello strano intreccio fra Opus Dei e massoneria che affiora pari pari in entrambe le vicende. Cominciamo da Achille Toro, quello stesso procuratore aggiunto della capitale che di fatto contribui' in maniera decisiva a stroncare l'inchiesta di Luigi De Magistris su Why Not e Toghe Lucane sequestrando l'archivio del consulente informatico Gioacchino Genchi. Il nome di Achille Toro, pesantemente coinvolto nelle indagini sul caso Anemone (tanto da aver fatto spostare per competenza la inchiesta a Perugia), torna oggi sul tavolo del pm umbro Sergio Sottani anche per le conversazioni con Oliviero Diliberto, all'epoca dei fatti ministro della giustizia. Tanto Diliberto quanto Toro risultano essere amici personali di un autentico trait d'union fra Opus Dei e massoneria come il piduista Giancarlo Elia Valori. Nella Propaganda 2 di Licio Gelli spiccava anche il nome di Vittorio Emanuele di Savoia, uno fra i personaggi piu' strettamente legati a monsignor Franco Camaldo, a sua volta frequentatore assiduo di Anemone.
Ma le indagini di De Magistris, stoppate da Toro, gettavano una luce nuova e del tutto particolare proprio sul caso Elisa Claps. Ecco, in sintesi, il quadro che emergeva e che era stato minuziosamente documentato dai pm salernitani Luigi Apicella (il procuratore capo bruscamente destituito proprio per aver indagato sui magistrati di Potenza e di Catanzaro), Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani (entrambi trasferiti d'ufficio dal Csm per la stessa vicenda). Fra i principali indagati di Toghe Lucane c'erano infatti proprio il pm del caso Claps, Felicia Genovese, ai tempi dell'inchiesta De Magistris ancora in servizio a Potenza, e suo marito Michele Cannizzaro, direttore generale all'epoca del locale ospedale San Carlo. I due denunciano a Salerno De Magistris. Ma proprio la ricostruzione resa da Apicella e dai suoi pm suona come un potente j'accuse, anche in merito al caso Claps. Negli atti - che alla luce delle attuali inchieste sembrano assumere sempre nuove conferme - si ricostruisce quanto aveva rivelato nel ‘99 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. E - particolare importante - il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile della citta', a quell'epoca in fase di costruzione, dove il corpo di Elisa sarebbe stato in un primo momento sepolto. La prima scala mobile di Potenza e' stata inaugurata nel 1994.
De Magistris indagando sulle Toghe lucane aveva peraltro accertato la comune appartenenza alla massoneria fra Cannizzaro e il padre di Danilo, Maurizio Restivo. Quest'ultimo, secondo Cappiello, aveva «contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinche' intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno (quella che tuttora ha riaperto l'inchiesta). Ma «l'esame dell'attivita' investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese - scrivono nel 2007 Apicella, Nuzzi e Verasani - evidenziava che nella immediatezza della notizia della scomparsa, nessuna perquisizione era stata disposta ne' sulla persona del Restivo Danilo, ne' presso la abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilita'». La Genovese, che da quelle vicende non ha mai subito alcun rinvio a giudizio o condanna, fin dai tempi di Toghe lucane esercitava - come risulta dalle intercettazioni - pressanti richieste sul Csm per ottenere il trasferimento a Roma. Dove da qualche anno e' in servizio come giudice a latere in corte d'appello.
Ma intanto oggi, dopo l'arresto avvenuto nelle scorse settimane in Inghilterra di Danilo Restivo, accusato dell'omicidio con modalita' analoghe di altre due donne, la versione dei fatti resa da Cappiello torna al vaglio della procura salernitana guidata da Franco Roberti. E la domanda che circola sulla bocca di tanti e': se appare difficile immaginare che il corpo della ragazza sia rimasto per tanti anni nella chiesa senza che nessuno se ne accorgesse, non e' possibile che vi sia stato trasportato in tempi piu' recenti e che fino ad allora sia rimasto sepolto proprio sotto la costruenda scala mobile? Quale o quali imprese edili hanno lavorato all'epoca - o in tempi piu' vicini a noi - dalle parti di quell'impianto? E il gruppo Anemone - o ditte subappaltatrici ad esso riconducibili - hanno avuto lavori in questi anni a Potenza? Potrebbe essere in questa domanda la chiave del mistero che gira intorno a quell'appunto rinvenuto nella lista dei 400. Anche perche', dopo i primi accertamenti, pare escludersi la pista dell'omonimia invocata dagli investigatori potentini. Troppi i nomi, troppe le coincidenze con un clero, come quello lucano, che vede ai suoi vertici uomini quale monsignor Camaldo, oggi e, in passato, don Donato De Bonis, numero due dello Ior ai tempi del crac Ambrosiano e della scomparsa di Roberto Calvi.
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Ma e' anche dalle pagine dell'inchiesta fiorentina sui grandi appalti che spuntano collegamenti - talvolta inediti - tra l'affaire Anemone ed un territorio strategico come la Basilicata. Un autentico crocevia di trame e affari, la terra di Lucania, con un formidabile cemento che si chiama petrolio, l'oro nero estratto dal sottosuolo dell'unica regione d'Italia che ne possieda, insiema alla Sicilia.
Che Diego Anemone non fosse rimasto - soprattutto negli ultimi tempi - insensibile al fascino del petrolio lucano lo dimostra il pressing sull'amico Balducci per far entrare nel collegio sindacale dell'Eni, il colosso petrolifero italiano, il commercialista di fiducia del gruppo di Grottaferrata, Stefano Gazzani. Il quale, gasatissimo, commenta al telefono: «Che cazzo me ne frega a me (dei soldi, ndr)? Io voglio dire, tanto il collegio sindacale dell'Eni, vado li' se mi nominano, mi daranno 50mila euro l'anno perche' quello e' il tetto massimo delle parcelle, ma non e' tanto quello, e' quello di mettersi seduto allo stesso tavolo con Scaroni». Magari per Anemone sedere vis a vis con Scaroni poteva avere un altro significato.
Di sicuro quando fra 2006 e 2007 esplode l'inchiesta del pm di Potenza (oggi a Napoli) John Woodcock che, partita dal filone Vallettopoli, arriva fino a Vittorio Emanuele di Savoia e suo figlio Emanuele Filiberto, il capoluogo lucano diventa agli occhi dell'opinione pubblica internazionale quell'epicentro di interessi miliardari e sotterranei che molti giurano di aver verificato personalmente, e da tempo. A raccontarlo davanti ai pm potentini, in quel periodo, era il multiforme imprenditore Massimo Pizza. Le cui dichiarazioni indussero Woodcock ad ordinare l'acquisizione degli elenchi dei massoni presso tutte le prefetture italiane. Ed e' sempre dalle verbalizzazioni di Pizza che l'indagine conduce a personaggi come «un certo monsignor Franco Camaldo». Lo stesso alto prelato che oggi scopriamo essere in rapporti di frequentazione assidua con Diego Anemone. 
Fin dal 2006, in realta', seduto dinanzi a Woodcock, Camaldo tira in ballo per la prima volta il nome dell'allora “adamantino” provveditore alle opere pubbliche Angelo Balducci. Col quale c'era gia', a quanto pare, una solida “comunione” d'intenti. Camaldo ammette di aver introdotto in Vaticano, a tale Ugolini, Massimo Pizza ed il suo socio Massimiliano Corradetti, per un affare immobiliare poi andato male, con denaro anticipato e non restituito. «Io mi sentivo per questo - geme Camaldo - in dovere spirituale, morale, etico (...). Siccome Ugolini mi pregava ed era disperato, appunto, e voleva questi 380 mila euro, io mi sono fatto prestare questi 380 mila euro da un altro signore amico suo, tale Balducci, che e' un alto funzionario. (...) In parte me li sono fatti prestare, in parte lui li ha prelevati da un conto corrente sullo Ior del padre».
Quello che non sapevamo, tre anni fa, e' che quella “comunione” fra Camaldo e Balducci forse non era solo di tipo affaristico. A collegarli era, quanto meno, la comune inclinazione per i giovani. Meglio se prestanti e possibilmente palestrati. Se su Camaldo si conoscono piu' che altro le frequentazioni alle feste omosex organizzate dallo stilista Gay Mattiolo, maggiori dettagli sono emersi sulle preferenze sessuali di Angelo Balducci. Grazie alla “intercessione” di un religioso nigeriano, a Balducci vengono proposti ragazzi dalle eccezionali prestazioni: «Non ti dico altro e' alto due metri per 97 chili, 33 anni, completamente attivo... ». O anche: «uno un po' piu' alto di me, palestrato, un bel tipo completamente attivo, moro, capelli corti, e' un'ottima soluzione se no non avrei insistito». Alla fine: «Sto in Vaticano - si legge in un sms - ora non posso parlare».

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Classe 1952, lucano di Lagonegro, vanitoso quanto basta per aprire nel 2009, prima della nuova bufera mediatica, un sito internet auto-agiografico (francescocamaldo.it) e da gestire ancora oggi una paginata su facebook con tanto di fotografia (dalla quale di recente ha prudentemente cancellato la voce “amici”), Camaldo, “attenzionato” dalla Procura di Potenza, nel 2007 lascia emergere suo malgrado quei collegamenti con i Savoia che porteranno di li' a poco l'erede al trono dietro le sbarre. Nell'ambito delle indagini sul duo Pizza-Corradetti, infatti, viene a galla l'attivita' svolta da Camaldo, Pizza e da Emanuele Filiberto per oscurare un sito internet sgradito ai potenti dell'ordine cavalleresco della real casa, quello dei Santi Maurizio e Lazzaro. Del resto, raccontava su Adista Luca Kocci, «Camaldo e' stato il “regista” della visita dei Savoia in Vaticano, il 23 dicembre 2002», ha organizzato le nozze tra Emanuele Filiberto e Clotilde Courau e battezzato la primogenita dell'augusta coppia. 
A suggellare cotanta intesa e' l'unica ascendenza dinastica fra l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e l'altra convention cavalleresca di cui Camaldo e' ai vertici: si tratta dell'Ordine del merito sotto il titolo di San Giuseppe, nella cui “Gran Cancelleria” (con sede a Calenzano, vicino Firenze) siede ancora oggi il presule lucano. Sotto l'egida del «Gran Maestro S. A. I. e R. Arciduca Sigismondo d'Asburgo Lorena Toscana, Gran duca titolare di Toscana, Arciduca di Austria, Principe reale di Ungheria e di Boemia», ecco sfilare una parata di duchi, marchesi, eccellenze venerabili ed eminenze varie. Pochi i semplici “On.”, quale e' ad esempio Riccardo Nencini, ex presidente del consiglio regionale della Toscana. O i “Prof.”, come lo storico Franco Cardini.
Un nome spicca fra tutti. Come la Voce aveva scritto fin dal 2007, tra i “commendatori” dell'Ordine di San Giuseppe c'e' tuttora il «Gen. Dott. Amos Spiazzi di Corte Regia». Si tratta del neofascista che fu definito dal giudice Felice Casson «un convinto e irriducibile cospiratore». Arrestato nel 1974 per il golpe della “Rosa dei venti” e condannato a cinque anni, fu assolto in appello. «Analogo esito - scriveva la Voce nel 2007 - aveva subito la condanna all'ergastolo per la strage della questura di Milano. Non appena riabilitato, il camerata Spiazzi, che si proclama “vittima” della malagiustizia italiana, nel 2002 ha fondato i “Fasci del lavoro” in provincia di Mantova. E si da' da fare, oltre che nell'Ordine di San Giuseppe, anche nell'altra corazzata dai contorni massonici, le Guardie d'onore di Napoleone: un consesso “nobiliare” che rilascia titoli accademici, baronie e marchesati compresi, a coloro che si iscrivono ai corsi per body guard e mercenari sui luoghi di guerra organizzati fra Genova e Milano». 

UNe#8200;RUBOLINOe#8200;PERe#8200;AMICO
Durante il primo interrogatorio dinanzi a Woodcock il gran cerimoniere del papa, Francesco Camaldo, aveva ammesso di conoscere non solo Massimo Pizza, ma anche Giorgio Rubolino. Personaggio rimasto per molti aspetti misterioso, figlio di un pretore di Torre Annunziata, molto legato ad un ex ministro dc, il lucano Emilio Colombo, Rubolino fu ucciso da un infarto ad agosto 2003. Aveva 42 anni. ll suo nome era balzato alle cronache nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso nel settembre 1985. 
La frequentazione fra Rubolino e Camaldo riaccende gli interrogativi su quelle esequie in pompa magna del giovane, svoltesi nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, unica parrocchia dello Stato Vaticano. Ad officiare il rito funebre - per il quale occorre una autorizzazione speciale - era stato il cappellano delle guardie svizzere Alois Jehle. Episodio rimasto oscuro, cosi' come la sepoltura nella basilica di Sant'Apollinare del boss della banda della Magliana Renatino De Pedis. Quella volta il disco verde arrivo' dal cardinale Ugo Poletti. Del quale, in quel periodo, monsignor Camaldo era segretario particolare. 
Ma l'amicizia fra Camaldo e Rubolino fa scuotere, forse, anche altri, vecchi fantasmi. Qualcuno torna con la memoria proprio a quella casa d'appuntamenti in via Palizzi, a Napoli, che per lungo tempo rappresento' la pista numero uno per cercare una motivazione vera al brutale assassinio di Giancarlo Siani. Giorgio Rubolino, che pure fu coinvolto fin dal primo momento proprio per le sue frequentazioni in quella casa - dov'erano ospiti abituali numerosi vip della politica e della magistratura partenopea, alcuni dei quali vennero identificati - fu in seguito scagionato da ogni accusa. 
«Rimase - osserva alla luce dei fatti attuali una fonte investigativa dell'epoca - e rimane ancora oggi il dubbio lasciato aperto dalle indagini: essere scoperti a frequentare una casa a luci rosse, sia pure clandestina, non sembrava un motivo sufficiente per far ammazzare un cronista “ficcanaso”. A meno che non si trattasse, fin da allora, di un appartamento dove, con la “copertura” di allegre signorine, i vip incontravano quei muscolosi ragazzoni, magari travestiti da femminuccia, che incrociamo nelle cronache giudiziarie di oggi. E questo, per la mentalita' degli anni ottanta, poteva essere davvero troppo». 
Un caso Marrazzo ante litteram? Staremo a vedere.

L'ANEMONEe#8200;Ee#8200;IL TO. RO. 
Noi, intanto, torniamo ad un altro mistero, il quesito iniziale sulle vere ragioni dell'exploit imprenditoriale degli Anemone. E proviamo a guardare da vicino alcuni aspetti, finora inesplorati, dell'impero di famiglia. L'intreccio di sigle e personaggi e' stato portato per buona parte alla luce dall'inchiesta di Firenze. Eppure una semplice visura camerale sulle cariche aziendali del rampante Diego mostra la sua presenza diretta in due sole societa'. La prima e' ovviamente la cassaforte di famiglia, quella snc “Anemone di Luciano Anemone e C.” che rappresenta il core business originario del gruppo. Ma nulla e' finora emerso sull'altra sigla che lo vede in pista come primattore: si tratta di “TO. RO. Societa' consortile a responsabilita' limitata” con sede a Torino, nel centralissimo corso Matteotti. La sigla - e' bene chiarirlo subito - non compare nelle indagini della procura fiorentina, cosi' come non figurano fra quelle pagine i nomi dei suoi soci o consiglieri. Tutti fuori. Tranne, appunto, il dominus Diego Anemone. 
Il consorzio torinese viene fondato sotto Natale, il 21 dicembre del 2001, con appena 10 mila euro di capitale sociale. Gli stessi che detiene tuttora. A giugno dell'anno successivo comincia ad operare nel settore di pertinenza: “costruzione di edifici residenziali e non”. Fino a tutto il 2008 dichiara un solo dipendente. 
Ma lo scopo primario del Consorzio nato all'ombra della Mole viene dichiarato fin dal suo oggetto sociale: «l'esecuzione dei lavori di restauro, consolidamento, adeguamento funzionale ed impiantistico degli immobili situati in Roma, via Del Clementino 91A, da destinarsi a nuova sede dell'avvocatura generale dello Stato, che il ministero dei lavori pubblici, provveditorato alle opere pubbliche per il Lazio, ha affidato all'associazione temporanea di imprese formata dalle stesse imprese costituenti la presente societa' consortile». Rappresentate, fin dall'inizio, dall'allora appena trentenne geometra Diego Anemone, in compagnia di manager e tecnici di fiducia del colosso piemontese “Rosso Costruzioni”. Questi ultimi, in prima battuta, sono Andrea Mosca Goretta, 59 anni, milanese, e il torinese Stefano Zerbi, 55 anni, ancora oggi presente nel fitto arcipelago “Rosso” (la “Rubattino ovest” nel capoluogo lombardo, la padovana “Binario spa”, dall'evidente vocazione ferroviaria, fino al “Consorzio RC ‘09” ed alla casamadre “Impresa costruzioni geom. Francesco Rosso e Figli spa” di corso Matteotti. 
Primo presidente del cda e' Mosca Goretta. Ma i patti sono chiari fin da subito: Non puo' effettuare alcuna operazione bancaria, assunzioni o licenziamenti, senza «la firma congiunta del consigliere geom. Diego Anemone». Una clausola ferrea che ritroveremo nel corso degli anni, fino all'attuale gestione. Stessa musica, percio', nel 2004, quando Mosca lascia il vertice e gli subentra il giovane Francesco Rosso, classe 1974, erede della corazzata edile piemontese. Ci avviciniamo cosi' ai nostri giorni: nel 2008, dopo una parentesi di gestione affidata al romano Fabrizio Perrini, balza al comando il napoletano Claudio Moro. 59 anni, residente nella capitale, Moro e' rappresentante del gruppo Rosso anche nella “Mida Park”, sede ai Parioli, che ha costruito parcheggi pubblici in diverse zone di Roma su licenza rilasciata dall'allora sindaco Walter Veltroni. Da aprile 2009 presidente del Consorzio TO. RO. (sempre con le limitazioni della firma congiunta di Anemone) e' lo stesso Giampaolo Rosso, 70 anni, a capo della holding torinese e presente con quote di maggioranza (51% contro il 49% di Diego Anemone) nel Consorzio.
Resta da capire cosa spinga un gruppo, quale quello guidato da Rosso, che dichiara un fatturato di oltre 110 milioni di euro, un utile di 4 milioni e passa (dati 2008) e clienti come Fiat o Pirelli, ad accettare fin dal 2001 il rigido controllo su qualsiasi operazione bancaria nel Consorzio TO. RO. da parte di un partner di minoranza - e all'epoca sconosciuto - come il “geom. Diego Anemone”. Impensabile che si tratti di operazioni “a perdere”, benche' dai conti sulla carta, sempre nel 2008, il Consorzio Rosso-Anemone fatturi circa 1 milione e mezzo di euro e dichiari un lieve deficit (poco piu' di 5.000 euro). 
Fra le principali commesse della “Rosso Costruzioni” (spesso in partnership con altri soggetti) spiccano il nuovo stadio della Juventus (valore dell'appalto: 70 milioni), il nuovo stabilimento Pirelli a Settimo Torinese, i lavori per le Olimpiadi 2006 a Torino e, dulcis in fundo, la Scuola Carabinieri a Firenze. Proprio lo stesso appalto che aveva fatto accendere i riflettori della magistratura locale: indagando sull'urbanizzazione di quell'area, che e' di proprieta' di Salvatore Ligresti, i pm hanno avviato l'inchiesta che sarebbe poi arrivata a travolgere Anemone, Balducci, Bertolaso e C. Cucu'...

* * *

PUPO, EMANUELE E I PUPARI
Restando nell'orbita di monsignor Franco Camaldo e delle sue altolocate amicizie non puo' che ritornare alla ribalta la chiave del connubio inscindibile, sulla scena televisiva italiana, tra il rampolo di casa Savoia, Emanuele Filiberto, ed il cantante Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi. Un duo che alla Rai va fortissimo, con il cantante che impazza da “I Raccomandati” a “Ciack si canta” ed il principe a far da valletto, rigorosamente muto ed impacciato. 
Se e' nota la stretta amicizia fra il potente Camaldo ed i notabili della Real Casa, meno conosciuta e' la vicinanza alla massoneria di Pupo. Portata alla luce in una intervista a tutto campo di Claudio Sabelli Fioretti per il Corriere della Sera Magazine nel 2005, la vicenda era stata rispolverata qualche tempo fa, dopo gli exploit del cantante a Rai 1, dal Riformista.
Vicende che oggi trovano una luce nuova. Cia' che il Riformista non ricorda e' che in quell'intervista infatti Pupo, originario di Arezzo, non solo ammetteva di essere stato iscritto alla massoneria («poi me ne sono uscito», spiegava, dimenticando che le regole sottoscritte permettono al massimo di entrare “in sonno”), ma rivelava anche di conoscere bene i figli del venerabile, Maurizio e Raffaello Gelli. Ed e' da qui, probabilmente, che s'impone il tandem fra Pupo ed Emanuele Filiberto, figlio di quello stesso piduista Vittorio Emanuele seduto al vertice del medesimo ordine cavalleresco in cui brilla la stella di monsignor Camaldo.

2 commenti:

  1. Molto interessante questo articolo di Rita Pennarola (? Nomen Omen?).
    Penso che abbiano solo tolto il coperchio ad
    una pentola colma di serpenti, e che siamo solo all'inizio.
    Bene, bene. Piduisti vaticAni (monsignor Camaldo segretario di Poletti, iscritto ALLA p2), Savoia, pedofili, satanisti,magistrati corrotti,
    servizi, massoni laici come Pupo, fascisti, affaristi criccaroli e senza scrupoli, prostitute e trans. E tanti, tanti soldi.
    La vomitevole corruzione della borghesia emerge
    in tutta la sua pochezza umana e sociale.
    Sono marci dentro, inemendabili.
    Non sono una moralista, generalmente non mi
    interesso se qualcuno va a mignotte o a trans,
    è gay o lesbica, quando si tratti di rapporti fra adulti consenzienti.
    Ma qui ci sono delle tipologie umane che ritornano con costante evidenza, non si può non notarlo. Anche Vittorio Emanuele Savoia andava
    con le prostitute a Milano, era nelle intercettazioni dell'inchiesta "Why Not?".
    La tua interpretazione psicoanalitica viene
    ulteriormente confermata.
    Sì, penso che siamo solo all'inizio.
    Allacciamo le cinture! Ne vedremo delle belle.

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  2. Vittorio Emanuele e' il peggiore ...
    Loschissimo, come tutta la sua famiglia !!!

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