lunedì 31 ottobre 2016

GORINO: IL VILLAGGIO DEI DANNATI...



Come nell'omonimo film "Il villaggio dei dannati" diretto da Wolf Rilla nel 1960 e del remake di John Carpenter del 1995, l'arrivo di 19 migranti tra giovanissime donne e minori, ha suscitato paura e sgomento nella grigia provincia ferrarese, come se potessero realisticamente creare un problema civico e, magari, un giorno potessero prendere piede e lo scettro del potere di quella piccola repubblica lagunare, scalzando gli autoctoni da quei lidi, questa volta con i volti neri di africani e non con le facce di giovani e biondi ariani alveari.
GORINO, il cui etimo deriva dal "nome base" Gregorio, come il Papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno il Grande, che mirava ad eliminare gli avversari della Chiesa e ad accrescere l'autorità del papato con la conversione dei "barbari", è diventato il simbolo mediatico dell'intolleranza e della ribellione della maggioranza silenziosa, il medium emozionale per dividere gli italiani tra pro-barricadero populisti ed indignati di ogni latitudine che accusano i suoi abitanti di azione e provocazione razzista contro i nuovi schiavi per difendere i confini di uno stagno melmoso e palafitte di antica fattura.
BRUCIA GORINO BRUCIA (arrivano donne e bambini)
cit. Il bambino negro



Tra vongole ed anguille, ecco sgusciare a Gorino una simpatica ed arzilla vecchietta, tal Nonna Elena che, vista la somiglianza, potrebbe essere la sorella del defunto giornalista SPEZI (Mostro di Firenze), leader dei barricaderos atavici. La signora intervistata strumentalmente dalla TV si è cimentata in vistose gaffe e discorsi allucinanti da far impallidire l'Ordine magico delle S.S.
Tra le dichiarazioni più eclatanti ricordiamo qualche perla per i posteri: " I neri sono meno intelligenti dei bianchi, avete visto le facce, hanno un QI più basso del nostro", oppure, "Nel sud-Africa i bianchi sono stati troppo tolleranti, non avrebbero dovuto permettere ai neri di conquistare diritti sociali, i bianchi devono riprendersi legittimamente il potere come un tempo", "Non possiamo ospitare questa feccia, potrebbero anche essere terroristi, quando arrivano a casa nostra ci portano malattie e miseria, noi siamo diversi da loro, meglio incivili che essere come le scimmie".
Nonna Elena, come se non bastasse, è nata in Eritrea da coloni fascisti e proprio lei lamenta l'arrivo di giovani migranti.
La vecchia signora rappresenta la classica ILICA della maggioranza silenziosa in astinenza da rogo, quella che tutti direbbero essere una bravissima ed onesta personcina, la vicina di casa gentile che ti presta il sale quando lo hai finito, ma, potendo la prima ad applaudire la "strega" che brucia in piazza, la perfetta kapo' che ti denuncia quando meno te lo aspetti, bravissima a fare la raccolta differenziata ma cattivissima dentro, di una malvagità da manuale, insomma, la classica mentalità che si cela nella massa e nella psicologia di massa di tutti i fascismi e totalitarismi...
Ovviamente, il problema non è certo la vecchietta, lei rappresenta solo l'archetipo di una certa mentalità strisciante che aleggia su tutto il bel paese, almeno lei non è ipocrita e ci tiene ad affermare le proprie tesi assurde razziste alla luce del sole, magari di un sole ferrarese pallido e nebbioso.
"Vecchiette come quella hanno la pellaccia dura, stai tranquillo. Comunque gente così rappresenta quella massa di persone 'perbene e rispettabili', gente che "si-alza-presto-lavora-paga-le-tasse-e-vuole-vivere-tranquillo/a" che caccia con violenza il prossimo bisognoso e poi va in chiesa a recitare il rosario, che se c'è il prete pedofilo di paese raccoglie firme in sua solidarietà, mentre se c'è qualcuno di 'sospetto' va subito dal carabiniere a fare delazione, a condannare e giustiziare senza sapere nulla. Su questa feccia di persone si basano da sempre le dittature, sono la loro colonna più robusta, i mille occhi che scrutano puntando il dito verso gli altri (mai verso se stessi). 
E su questa feccia il vero potere (non i servi politici) ha deciso di fondare un nuovo fascismo che da noi avrà la faccia della Lega, dei 5Stelle e di CasaPound."
cit. Guido Santi


Possiamo comprendere la paura degli abitanti, il desiderio di continuare a vivere isolati dal mondo mantenendo tradizioni che non vogliono subordinare al cosiddetto diktat straniero, la convinzione di essere invasi e deturpati, il timore del contagio, l'insofferenza verso coloro che portano problemi esistenziali vomitando la loro miseria su queste fertili e rigogliose terre, ma prendersela con giovani disperati, compresa una ragazzina incinta, che hanno attraversato l'inferno dopo aver subito qualsiasi angheria e sopruso e trattarli come appestati, è una cosa inaccettabile che grida vendetta ed intristisce il cuore di tutti gli italiani, razzisti e non...
Il problema sono le priorità, ai confini virtuali preferisco l'ospitalità reale a 11 donne e 8 bambini.
Qualcuno ha precisato fossero solo donne, come se cambiasse qualcosa, come se non fossero degne di ospitalità in quanto solo donne. 
Sul discorso immigrazione, invece, basterebbe iniziare a suddividersi equamente e proporzionalmente i migranti in tutti i paesi europei, iniziare finalmente ad investire in progettualità e vera integrazione, smettere di frignare ogni qual volta ci sentiamo assediati, non appoggiare politicamente dittature che creano i presupposti economici di fame, carestie e malattie, fermare tutte le multinazionali mondiali che sfruttano quelle terre riducendo in schiavitù i loro abitanti e di fare guerre imperialiste predatorie che condizionano anche i paesi africani in relativa ed apparente pace. 
Ecco, dopo non ci sarebbero invasioni compulsive ed i GORINIANI potrebbero finalmente morire felici in solitudine nel loro stagno. 
"Una dissonanza logica, un cortocircuito tipico di tanti atavici bifolchi. Dobbiamo auspicare vengano geneticamente sostituiti??? Non credo, non siamo come loro, ed anche a Gorino non tutti la pensano allo stesso modo. La maggioranza silenziosa è spesso composta da queste animelle all'inizio del loro ancor lungo cammino, involucri di carne svuotati e riempiti di rabbia e demagogia, puro arredo scenografico della matrice che serve solo come pisciatoio pubblico mediatico, strumentalizzati a loro insaputa come medium divisorio.
Possiamo allora pensare ad un sano e giusto contrappasso per coloro che hanno riservato questo barbaro trattamento a chi è stato molto meno fortunato di loro???
Una lenta ed inesorabile fine ingozzandosi di cioccolato amaro africano, comprato in un discount cinese."
cit. L'amico dei negri



Finché esisteranno campanili e confini ci sarà la dicotomia tra NOI e LORO, è questo che nessuno vuole capire. La violenza che talvolta lo straniero porta con se' è la diretta conseguenza di questo conseguente dualismo, il populismo aumenta la violenza anche dello straniero, non risolve nessun problema. Se un africano o qualsiasi straniero nasce a Roma avrà le stesse caratteristiche e peculiarità di un autoctono e sarà indistinguibile da un romano, parlerà perfettamente la stessa lingua, lo stesso dialetto, imparerà ad avere gli stessi aspetti caratteriali tipici dell' humus culturale del luogo, assumerà la stessa filosofia di vita, le stesse abitudini sociali, assorbirà quella romanità a prescindere dai tratti somatici e dal colore della pelle. L'aspetto genetico riguarda solo l'involucro, mentre lo spirito si modella relativamente all'ambiente che ne determina la consequenziale forma pensiero, plasmandosi in continuità con le tradizioni di quella comunità, comunità che avrà anche il compito di evolversi e di crescere nel tempo e non la pretesa onnipotente di rimanere immutata per l'eternità..
Al contrario se faccio nasce Mozart in Mozambico ed in mezzo alla giungla, non avrà mai la possibilità di sviluppare propensioni artistiche e, al massimo, potrà aspirare a diventare Tarzan.
Non esiste il gene del pianista, esistono propensioni e potenzialità che possono essere favorite o meno. 
Lo spirito è in progress e si modella a seconda delle esperienze che facciamo durante la nostra esistenza, attraverso quello che impariamo dall'ambiente circostante, dall'educazione familiare e scolastica. La nostra psiche è più forte ed è predominante rispetto alle caratteristiche genetiche che sono solo il nostro vestito apparente. Il corredo genetico riguarda solo l'aspetto fisico che ereditiamo dai nostri genitori, ma esso passa in secondo ordine rispetto a tutto il resto.
Chiunque deve potere accedere ai diritti minimi garantiti e godere di diritti sociali, civili ed economici. Non esistono stranieri e Italiani, esistono persone con le loro storie, con i loro problemi, con le loro gioie, con i loro amori ed i loro dolori.
Sull'immigrazione, purtroppo, regna ancora una grande ignoranza ed una percezione indotta negativa, la massa si basa su preconcetti, si nutre essenzialmente di propaganda divisoria, la subisce quotidianamente ed assorbe l'archetipo dello straniero brutto e cattivo che ci toglie diritti. 
I migranti vengono percepiti come bestie - e allora difendiamolo il nostro orticello, buttiamoli tutti a mare, difendiamoli questi confini, questa prigione virtuale con i suoi abitanti schiavi che temono di essere scalzati da minorenni e madri con la sola colpa di essere stranieri.
Continuiamo a non centrare il bersaglio contro le cause strutturali, contro un sistema padronale che alimenta diseguaglianze per non percepirci assediati nella nostra posizione della scala sociale.

Quante guerre abbiamo fatto e stiamo esportando?
Le condizioni economiche di sfruttamento occidentale quanti danni hanno recato al continente nero?
Per quale motivo il 3° mondo non dovrebbe emigrare?
Se fossimo nati in quell'inferno e non stessimo al calduccio nelle nostre belle case riscaldate con il loro petrolio, cosa faremmo al posto loro???
Ci imbarcheremmo anche noi con la nostra famiglia per cercare un po' di fortuna nella disperazione?
L'analisi deve partire dalle cause ancestrali, da processi storici, politico-economici, non possiamo ragionare come se il mondo fosse nato insieme a noi.
E' una mancanza di empatia e di umanità, sorretta e giustificata da un cortocircuito logico...
Comoda non prendersela con il PADRONATO CAPITALISTA che crea crisi economiche, guerre e miseria e puntare il dito contro chi subisce questo processo. La propaganda crea divisione tra poveri per evitare che questi si coalizzino contro il potere costituito e l'autorità vigente.
Se questo ci fa percepire più in alto nella scala sociale, se accettiamo questo paradigma, dobbiamo anche accettare il fatto che qualcuno prima o poi un giorno ci invada, ci scalzi e pretenda un posto al sole.
In realtà, i media parlano solo della criminalità degli immigrati e non dell' 70 % che lavora onestamente, svolgendo quelle tante occupazioni che l'italiano medio non vuole più fare.
Questo processo psicologico di massa serve a modellare la percezione della realtà degli schiavi autoctoni che si rivolgeranno successivamente ai populismi politici, populismi figli di coloro che depredarono quei mondi.

Il PADRONATO auspica un'immigrazione di milioni di persone per creare i presupposti di accettazione dell'agenda liberista che contempla l'abbassamento dei salari e maggiore precarietà, minore stato sociale, azzeramento dei diritti e privatizzazioni indiscriminate.
Il problema è che gli stranieri sono solo il mezzo non la causa e quindi è errata la percezione del fenomeno per come viene registrata dalla massa e va proprio ad alimentare il trinomio PROBLEMA REAZIONE SOLUZIONE che il potere si aspetta da noi.
Tutti i discorsi sull'immigrazione dovrebbero contemplare non tanto la distorta accezione negativa dell'altro, ma concentrarsi soprattutto sulla struttura di potere che manipola e strumentalizza a suo vantaggio il PROBLEMA.
Il virus pandemico della laicità dovrebbe influenzare il 3° mondo, ma ancor prima il cosiddetto 1° mondo.
Buona migrazione a tutti...



lunedì 17 ottobre 2016

IL MISTERO BUFFO DELLA FENICE DEI VIP...


Un saluto al grande Dario Fo, un abbraccio all'uomo, all'intellettuale che meglio ha saputo denudare il Re attraverso la satira, l'intelligenza, il linguaggio, ed un benvenuto a Dylan, vecchia roccia rotolante, poeta di un mondo antico che non c'è più, o forse non è mai esistito.
Non sono in grado di dire se entrambi meritassero il Nobel, personalmente lo avrei dato prima a Fabrizio De Andrè e a Stanley Kubrick, o forse a nessuno di loro, perché ritengo il premio Nobel un retaggio di un mondo ipocrita. 
-Ricordiamo che, nel 1888, mentre Alfred Nobel si trovava a Cannes, suo fratello Ludvig morì, e per errore un giornale francese pubblicò il necrologio della morte di Alfred condannandolo aspramente per l'invenzione della dinamite. 
Il titolo del necrologio diceva "Il mercante di morte è morto" (Le marchand de la mort est mort): Alfred Nobel, colui che divenne ricco trovando il modo di uccidere il maggior numero di persone nel modo più veloce possibile. (wikipedia)
A seguito di questo episodio Nobel avrebbe iniziato a preoccuparsi di come sarebbe stato ricordato dopo la sua morte e quindi in lui sarebbe maturata la volontà di lasciare un migliore ricordo di sé.

La nascita del famoso premio ha origine dalla volontà di redenzione di un mercante di morte, quindi per concessione del Re di turno. Simbolicamente santifica lo status quo e dall'alto della sua regale giuria, indica il meritorio tra i tanti concorrenti del reality più aristocratico che ci sia.
-Un premio intriso di sangue che riconosce emeriti umani insigniti al rango pneumatico superiore, con annesse statuette sacre per la pace come Obama, Al Gore e Kissinger, non mi ha mai convinto. 
Per carità, nella lunga lista dei vincitori ci sono anche tante personalità degne di tale onorificenza, ma ritengo sia un gioco strumentale politico attraverso il quale il sistema occidentale si indora e ci indora la pillola sociale del più bravo tra i bravi.
Con il Nobel nasce il concetto moderno di reality e di meritocrazia, però senza gara, con vincitori ad honorem, una sorta di competizione senza competizione, in base alle virtù espresse in vita e durante la propria luminosa carriera. 
Un retaggio antico che è trasmutato sotto altra forma in un mondo bisognoso di modelli e di archivi di Stato ove catalogare le opere d'arte viventi, meglio se prossime alla morte nel caso di artisti, ancor meglio se morte nello stesso momento in cui si celebra il nuovo nato, dove si replica dalle sue ceneri il mito della Fenice sotto forma di vip, ma un po' tutti VIPere.
Il Mistero Buffo della Fenice dei vip e del suo eterno ritorno aleggia su di noi, trasmuta dal giullare al menestrello di Stato...


Drappi, tappetini regali, completi in Tait e rose rosse annesse ci portano nel mondo dorato della messa laica, in realtà estremamente religiosa, della premiazione, del BENEMERITISMO, delle medagliette e stigmate decorative luccicanti. Tra sorrisi a denti stretti o a gengive da cavallo, tra frizzi, lazzi e sollazzi, tutti insieme appassionatamente a celebrare questo mondo tanto cattivo, ma che in fondo può vantare eccellenze di gran croce, faro per le prossime generazioni di sudditi. 
La premiazione è un po' come una piccola morte, una medaglia apposta sulla tomba senza il cadavere, la fine di un percorso, un fiore che non appassisce perché impregnato di un'energia egregorica socialmente condivisa, ed è interessante notare la significativa coincidenza astrale del lungo viaggio di Fo che fa simbolicamente il passaggio di consegne al menestrello americano.
La vecchia america in odor di elezioni politiche saluta il "meglio" che può rappresentare ed esprimere per farsi bella, nonostante il trucco stia scemando e le rughe siano sempre più evidenti.
Tra due loschi figuri contendenti alle politiche, Clinton e Trump, il terzo gode con occhiali scuri ed aria da becchino, incoronato direttamente dal presidente Obama.
Il buon Dylan progressista ripulisce in un nano-secondo lo specchio nei quali i sudditi proiettavano le loro immagini come ombre e mostra la faccia onesta a stelle e strisce.
Il messaggio mediatico internazionale è quello di morte e rinascita.
Quale cambiamento dobbiamo aspettarci, chi muore e chi rinasce???
Un messaggio subliminale come spot a favore della Clinton in evidente debacle???
A favore degli USA in contrapposizione a Putin il conservatore???
Quale evento ci aspetta alle porte, un nuovo conflitto militare globale annunciato e forse imminente?
O, semplicemente, una velleità aristocratica di veicolare e glorificare l'atto celebrativo in quanto tale, nel ritornello sempreverde dei ruoli sociali condivisi??? 

Dal giullare al menestrello siamo ancora in pieno medioevello...
cit. IL RE DEI RE





venerdì 14 ottobre 2016

IL MITO DELL'ALTALENA... di Raffaele K. Salinari





«Luce luce lontana, più bassa delle stelle, quale sarà la mano che ti accende e ti spegne? 
Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena…». 
Così Fabrizio De Andrè poetizza, e dunque rinnova, una vecchia storia: quella di Erigone, la vergine sposa di Dioniso trasformata poi in costellazione, che fondò il mito dell’altalena.

Ma che senso ha ricercare queste ascendenze arcaiche, richiamare i significati sacri, gli usi visionari? In fondo l’altalena è solo un gioco, un innocente passatempo per bambini che però, qui sta l’arcano, mai lascia indifferenti, sempre turba l’anima in modo inspiegabile. Forse è perché viene da un tempo lontano, quando le distanze tra l’umano e il divino non erano, come oggi, incommensurabili, e quel gioco simboleggiava la loro congiunzione: una pratica estatica, per rigenerarsi al cospetto della zōḗ.
Nell’antica Grecia zōḗ significava Vita, senza nessuna caratterizzazione ulteriore e senza limiti: esistenza incondizionata. E questa zōḗ, che non ha contorni e neppure definizioni, ha il suo sicuro opposto in thánatos, la morte. Ciò che in zōḗ risuona in modo certo e chiaro è «non morte»: qualcosa che non la lascia avvicinare a sé; da questo Bataille vedrà nell’erotismo l’affermazione della Vita sino dentro la morte.
Rileggere un mito, in realtà, significa renderlo attuale; Schelling dice che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere e divenire senza che un’altra cosa contemporaneamente sia e divenga, poiché all’interno della natura stessa non esiste nulla di originario, nulla di assoluto e per sé stante: gli atti di culto che hanno preceduto quelli attuali non erano semplici gesti di superstizione dovuti all’ignoranza dei fenomeni naturali, ma creazioni possenti generate da questa consapevolezza.

La vertigine e la maschera
L’altalena è dunque un gioco originariamente sacro, ma che tipo di gioco è? Secondo Roger Caillois nel suo La vertigine e la maschera, essa risponde al principio dell’Ilinx, della «vertigine»: l’ebbrezza che strappa al mondo razionale e mette, seppur per un solo momento, sull’orlo dell’imponderabile, esposti alla visione del gorgo – questo significa in greco la parola Ilinx– nel quale gorgogliano le forze che governano il mondo senza che le si possa mai governare.
Ancora e sempre l’attrazione per la «vertigine» resta una necessità della vita psichica; anche se la civilizzazione odierna l’ha voluta confinare in luoghi separati – come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “normalizzata” non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura – una libera e semplice altalena, con il suo movimento “lunare”, ciclico, può generare un fugace incontro con l’Intelligenza della zōḗ.

Perché il cielo, ed il mondo sotto di esso, si muovono con movimento circolare? Si chiede l’egizio Plotino nelle Enneadi, e lui stesso risponde: perché imitano l’Intelligenza.
E il movimento circolare, prosegue il filosofo: «È un movimento della coscienza, della riflessione, e della vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non passa ad altro, appunto perché deve abbracciare tutto in sé. Ma non l’abbraccerebbe se rimanesse immobile, né avendo un corpo, manterrebbe in vita le cose che contiene: infatti la vita del corpo è movimento. Sicché il movimento circolare risulta composto del movimento del corpo e di quello dell’anima, e siccome il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo trattiene, dai due deriva quel movimento che ha del movimento e della quiete».
E allora, nessun gioco come l’altalena può simboleggiare meglio la visione di un corpo e di un’anima uniti nel generare questa combinazione di quiete e movimento che riflette, sul piano del microcosmo umano, l’Intelligenza stessa che ordina ed abbraccia il Cosmo.
«Io, se non lo sapete figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto» dice la Venere rinascimentale e neoplatonica di Marsilio Ficino, divinità della Vita che genera altra vita secondo «voluttà e moto»; principio femminile che fornisce alla zōḗ quell’animazione caratterizzante propria delle vite particolari: le singole bíos.

Venere, «anima del Mondo» secondo Plotino, agisce dunque attraverso il moto ondeggiante che il suo paredro, Eros, suggerisce ai corpi. E come non associare queste caratteristiche alle sensazioni eccitanti, erotiche, che proviamo in altalena: la voluttà sensuale evoca il suo moto, il suo moto ondeggiante porta seco la voluttà.
Ma questa sensualità, l’erotismo del dondolio, arriva a noi dalla trasformazione di un gioco – l’altalena – che antichi miti descrivono come simbolizzazione della morte; per questo il nesso tra morte ed erotismo sfugge a chiunque non ne veda il senso religioso! Inversamente, il senso delle religioni sfugge a chiunque trascuri il legame che esso presenta con la morte e l’erotismo.
Estendere la trama delle analogie significa essere sostenuti, nella nostra ricerca, dalla tela della realtà; questa preziosa unità analogica potenzia il nostro essere nel Mondo.
Un obiettivo esistenzialmente ed essenzialmente politico dunque, poiché questi termini sono aspetti di uno stesso divenire, di una potenza dell’esserci che manifestiamo attraverso la nostra singolarità pienamente dispiegata.


Il mito greco: Erigone
Ecco, allora, il mito delle origini: un pastore di nome Icario ricevette da Dioniso il segreto del vino. Di questo nettare egli fece dono ai suoi colleghi pastori che, credendosi avvelenati, lo uccisero. La fedele cagna Maira corse a cercarne la figlia Erigone che, di fronte al cadavere del padre, lanciò una maledizione prima di impiccarsi per il dolore: da quel giorno, nella ricorrenza del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate sino a quando gli assassini del padre non fossero stati trovati ed il suo sacrificio espiato.
E così andò; di fronte a quel susseguirsi di impiccagioni verginali gli abitanti di Atene si rivolsero all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità di inventare un gioco che potesse simboleggiare l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il rito dell’altalena.
Ma, per comprendere appieno il mito, dobbiamo situarlo all’interno della sua evoluzione: le storie non vivono mai vite solitarie, sono inserite in un grande albero del quale dobbiamo ritrovare le radici attraverso i rami.
Il fondamento storico cultuale sul quale si basa questa ricostruzione del rito tratto dal mito risale ad un’epoca molto più remota: alla taurocatapsia minoica in onore della Grande Dea mediterranea. Il salto tra le corna del toro, infatti, simboleggiava il moto oscillante dell’altalena sulla quale stava seduta la Dea, mentre l’animale era una sua ipostasi teriomorfa.
A riprova di ciò, nella zona che circonda il palazzo di Aghia Triada, presso Phaestos, venne trovata una statuina di terracotta, risalente al XVI secolo a.C., che rappresenta una figura femminile che si dondola in altalena. Il luogo di rinvenimento era un piccolo reliquiario e la statuetta, sormontata da due uccelli che stanno per spiccare il volo, forse mediatori tra il mondo dei mortali e quello degli dei, evoca, all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divinità che, in questa cultura, significa l’altro da sé, lo «spettatore divino».
A Malthi in Messenia e a Mari in Mesopotamia si trovarono altre due statuette della Dea, risalenti allo stesso periodo, seduta e approntata per la sospensione.
Una figura femminile in trono che doveva essere destinata a dondolarsi la troviamo anche in un santuario della dea babilonese Ninhursag, risalente al III millennio a.C., come pure in varie parti della Grecia sono state rinvenute figure preistoriche che, come gli oscilla romani, erano destinate allo stesso scopo.

Alle origini, dunque, la sfera del mito e del suo rito appare molto più ampia e decisamente meno tinteggiata di toni oscuri rispetto al mito greco, essendo certamente presente il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita.
E di morte e rinascita parla il simbolo più conosciuto di Cnosso, il regno della Grande Dea: il labirinto. «Una grande figura femminile della cerchia dionisiaca apparve su una tavoletta di Cnosso, in un contesto di poche parole senza nomi; e tuttavia fu il primo personaggio divino della mitologia greca che poté essere immediatamente conosciuto […] è la Signora del Labirinto: essa deve essere stata una Grande Dea. […] Socrate, nel dialogo che Platone pubblicò con il titolo di Eutidemo, nominò il labyrinthos e lo descrisse come una figura in cui è facilissimo riconoscere una linea a spirale o a meandro che si ripete all’infinito. […] Sia la spirale sia il meandro vanno intesi come percorsi che si fanno involontariamente avanti ed indietro, se si continua a seguirli»; così ci dice Kerényi nel suo Dioniso.

E «Io sono iltuo labirinto… », dirà Dioniso ad Arianna nella poesia di Nietzsche. Arianna «moglie di Dioniso», come dice Euripide nell’Ippolito, è una divinità lunare, legata alla parte umbratile dell’esistenza, come Persefone e Demetra.
Su alcune monete di Cnosso la troviamo raffigurata su una faccia, mentre su quella opposta compaiono i meandri del labirinto con iscritta una falce di luna. Questa sua caratteristica affinità con la costruzione dedalica le consentirà di orientare Teseo, ma anche di identificarsi con il movimento dell’altalena, che riproduce le fasi lunari nel loro continuo mutamento: come i meandri del labirinto.
Le tre fasi della luna si riflettevano anche nella figura della Grande Dea come vergine, ninfa e vegliarda. Altra identificazione fu quella che vedeva la vergine associata all’aria, la ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero.
Queste letture gettano luce anche sulla modalità della morte di Arianna, o di una delle sue morti, quella per suicidio mediante impiccagione, che la identificherà poi con Erigone. Il mito, in questo caso «esistenziale» – come lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni definiva quelli che simbolizzano le fasi della vita – non va separato dal rito che lo richiama e lo attualizza.
E allora possiamo pensare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il labirinto; una sorta di trasformazione del percorso terrestre, forse in origine una danza, in moto pendolare: la traiettoria, che richiama la falce di luna, ne risolve i meandri in eterne oscillazioni.
Luna ed altalena divengono così le facce di una metafora aerea che richiama le fasi di una perenne ricerca interiore, mai terminata, inesausta; una prova continua, a tratti mortale, che sembra tornare incessantemente al punto di partenza, e della quale il labirinto è sempre stato il simbolo più immediato.
Anche nei Misteri di Eleusi le danze labirintiche rappresentavano il cammino dell’anima verso la sua liberazione; i motivi a meandro, presenti in maniera ubiquitaria in ogni tempo e luogo, sono un simbolico riferimento alla zōḗ non passibile di interruzioni. Seguendo queste suggestioni capiamo perché nel palazzo di Cnosso il corridoio dal soffitto a meandri conduce verso la principale fonte di luce della costruzione, chiara simbologia della rinascita.


Dioniso e l’altalena
Questi riferimenti iniziali ad Arianna, ed al labirinto come percorso ripetitivo, un «avanti ed indietro», servono ad inquadrare le ascendenze dionisiache del mito fondatore: la storia di Erigone, l’«Arianna di Ikarion» che diverrà la prima baccante, vergine e amante del dio; una delle tante personificazioni della Grande Dea che, all’inizio della storia mediterranea, presiedeva al rinnovamento eterno della Vita.
E allora entriamo più a fondo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti, ci descrive la festa delle altalene, e facciamolo guardando al firmamento, alla costellazione celeste in cui è fissato per sempre. Se l’andare in altalena è un riferimento polare nel cielo microcosmico delle nostre immagini archetipiche, è naturale che abbia un corrispettivo proprio nella costellazione che ci narra la sua storia: la Vergine o, in altre versioni, Sirio.
Nel mito, ripreso da Eratostene, Sirio appare come la cagna Maira, la “scintillante”, un nome proprio per una tale stella.
È la «luce lontana» che si vede in inverno cui fa riferimento De Andrè nella sua canzone Ho visto Nina volare, dove il mitologema dell’altalena viene ripreso in ogni suo aspetto.
È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità – direbbe Varrone: parchissime di misericordia – il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione.
Icario, infatti, viene ucciso dai suoi amici – mandriani dei boschi di Maratona presso il monte Pentelico – poiché accusato ingiustamente di averli avvelenati proponendo loro di gustare il nettare senza tagliarlo con l’acqua, come Enopione più tardi consigliò di fare. Dioniso dunque, il dio che muore e rinasce, protagonista della tragedia greca, signore dellazōḗ, è all’origine del mito greco dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre pratiche tutte riconducibili all’essenza del «dio dell’ebbrezza», quella situazione particolare di «vortice» del quale il vino è l’araldo.
Gli antichi mitografi, quelli precedenti Eratostene, dicono che dopo l’uccisione di Icario da parte dei pastori che si credevano avvelenati, la cagna Maira, fedele compagna dell’emissario dionisiaco, torna da sua figlia Erigone per avvertirla della tragedia paterna. Comincia così l’angosciante erranza della ragazza alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra molti altri, la ricerca del cadavere smembrato di Osiride da parte della sorella-amante Iside.
Significativa prefigurazione di quello che sarà lo strumento simbolico che libererà le vergini attiche dalla sua maledizione, l’altalena appunto, Erigone, «copiosa figliolanza», traduce il suo nome Graves, oppure «nata all’alba» – tutti appellativi che la includono in uno degli aspetti della Grande Dea – viene, nei miti più antichi, chiamata Alêtis, l’errante, con riferimento non solo all’errabonda e disperata ricerca del cadavere, ma anche al suo carattere lunare, di perenne mutazione astrale.

La luna e la morte – aspetti della Grande Dea – si sovrappongono alla figura di Erigone sulla sua altalena, così come lo sbocco del mito sarà verso la rigenerazione e la vita.
Erigone erra dunque come la luna nel cielo, senza posa. A volte scompare, nera ed invisibile, minacciosa, come inghiottita dal mondo infero. Se per la civiltà greca Dioniso è oramai il dio della zōḗ, la vita senza caratterizzazioni, Erigone, figura epigona della Dea, ne è il principio animatore, caratterizzante: colei che dà l’anima alle bíos.
La zōḗ indifferenziata, infatti, cerca l’animazione: per caratterizzare le sue forme, le suebíos, ha sempre bisogno del principio femminile. Questo «fare anima» – mutuando la celebre espressione di Keats – è necessario alla zōḗ per trascendere il suo stadio seminale, totipotente ma indistinto, e trasformarlo in atto. Erigone, quindi, è il principium individiationis di Dioniso.
Qui la complementarietà simbolica tra le due divinità è evidente; si può dire che siano aspetti dello stesso Principio che si esprime attraverso attributi diversi; dalla relazione tra Erigone e Dioniso nascerà anche un figlio, Stafilos, che può essere inteso come la zōḗ che si rende carne: Stafilos morirà e risorgerà, come il dio stesso.
Anche con Arianna avviene tutto questo: una versione del mito ci narra della «Signora del Labirinto» che muore di parto e del figlio nato nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mitologema della Grande Dea che procrea la sua discendenza.
«E così Arianna divide con tutti coloro che appartengono a Dioniso un destino tragico e, coi più eletti di questi, anche la sua liberazione dall’Ade dopo la morte e la sua elevazione all’Olimpo», ci ricorda Otto.

In altre versioni del mito, narrate da Igino, Apollodoro ed Eliano, è Dioniso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Erigone piange il suo sposo affetta da una forma di mania che la raffigura così come la prima baccante. Si impicca dunque ad un albero che potrebbe essere anche una vite scaturita dal corpo dell’amante; in tempi lontani questa sviluppava un vero e proprio tronco, ancora visibile in alcuni musei di storia naturale, come quello di Firenze.
Graves sostiene invece l’ipotesi del pino, nominato da Virgilio nelle Georgiche: lo stesso albero sotto il quale il frigio Attis fu castrato.
In altre narrazioni dal corpo del dio scaturirà la vite, e il suo sacrificio darà agli uomini il mezzo per raggiungere l’ebbrezza, attraverso la quale egli tornerà ogni volta a rinascere, continuando così il ciclo della Vita.
Erigone dunque, come nel mito di Iside e Osiride, termina il suo vagare al ritrovamento del corpo del padre o amante, Icario o Dioniso, che l’antica festa ateniese delle Anthestḗria – la festa dei germogli – faceva coincidere col Giorno delle Brocche (Choēs), nelle quali si trasferiva il vino per essere bevuto, ed in grandi paioli si cucinava la panspermia, una miscela di prodotti vegetali che esaltavano le forze vivificatrici della natura risorta. Lo stesso giorno le giovani vergini ricordavano il sacrificio di Erigone andando sulle altalene, leAiðra.
Era il momento in cui l’inverno volgeva alla fine ed i fiori cominciavano a spuntare dalla neve residua. Il verbo antheîn, che indica questo movimento floreale, dà appunto il nome alla festa, Anthestḗria, ed al suo mese, Anthestērin.
I versi di un ditirambo dicevano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori». Ma la scena del ditirambo non era l’Atene nei giorni della festa, bensì un richiamo ai fiori che Persefone stava cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero. Ecco che torna, imperioso, il raccordo tra il gioco dell’altalena, la vergine impiccata, e la storia del dio che in questo periodo emerge dal mondo sotterraneo portando con sé anche le anime dei defunti ad abbeverarsi alle brocche col vino.
Le anime dei morti venivano chiamate díspioi: le assetate, e non di semplice acqua avevano sete, bensì del vino dei píthoi, i grandi recipienti di argilla aperti nel primo giorno della festa e dai quali il nettare dionisiaco veniva trasferito nelle brocche, nelle choēs, che davano il nome al terzo giorno delle celebrazioni.

Qui ci troviamo immersi pienamente in un’atmosfera frammista di ebbrezza e spiriti dei morti: dunque aperta al puro erotismo, ne dedurrebbe Bataille. Era questo delle Anthestḗria, infatti, anche il tempo in cui Dioniso, tornato dagli inferi, giaceva con le donne di Atene, tutte simboleggiate dalla Basilinna, la moglie dell’árchōn basileús.
In epoca romana lo stesso periodo veniva definito Mundus patet: il mondo infero restava aperto, seppure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza dionisiaca, e dunque senza l’erotismo della festa ateniese.
E così, il giorno delle brocche, le giovani andavano in altalena, in onore di Erigone; anche ai bambini era consentito dondolarsi, perché quel giorno essi imitavano tutto quanto accadeva pubblicamente nella grande festa. I giovani Kuroi bevevano il vino per la prima volta.
La relazione tra la morte e l’altalena dunque, come vediamo dal mito, è diretta: essa è un’attività comunque potenzialmente letale: per questo può simboleggiare la trasfigurazione simbolica della morte proprio a partire dalle sue intrinseche caratteristiche.
Il legame tra l’altalena e la morte rituale durante le celebrazioni dionisiache è anche dovuto all’indubbio carattere ctonio del dio poiché, come dice icasticamente Eraclito «Ade e Dioniso […] sono un’unica e medesima cosa», a sottolineare la cifra infera di una divinità legata, per metà della sua esistenza/ciclo, al mondo dei morti.
Ed infatti, durante le Anthestḗria risorgevano le anime dei defunti ma anche i keres, forme che veicolavano miasmi, influenze nefaste che dovevano essere purificate con katharmoi. L’ultimo giorno della grande festa, in conclusione di tutte le celebrazioni, nelle case venivano scacciate queste entità insieme alle anime dei defunti, oramai appagate dai culti a loro dedicati e dalle libagioni di vino, col grido «fuori i keres, sono finite le Anthestḗria!».
Ecco che, allora, come dice Otto, pienezza di vita e violenza di morte, ambedue sono in Dioniso egualmente misurate: nulla è attenuato, ma nulla è distorto.
Ma dove c’è Thanatos c’è anche Eros, e la festa delle altalene è impregnata di sensualità e di vera e propria sessualità, intesa e vissuta anche come momento problematico della vita muliebre, in cui avviene un passaggio non sempre facile a compiersi.

Ernesto De Martino, nel suo studio sui tarantolati, coglie appieno il legame tra fase puberale – dunque ancora “virginale” della vita femminile – e la stagione successiva, quella matrimoniale, con il corteo di pulsioni suicide legate al travaglio del momento.
La festa delle Aiðra assume dunque un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.
L’idea che qualcosa di altalenante servisse come scongiuro della cattiva sorte, auspicio beneaugurale, o come gesto di purificazione, la troviamo “imbalsamata” anche nel rito romano degli oscilla, che richiama il mito originario seppur “disumanizzato”.

Nel Libro II delle Georgiche (vv. 388 sgg.), infatti, compaiono questi versi oltremodo indicatori: «Et te, Bacche, vocant per carmina laeta, tibique oscilla ex alta suspendunt mollia pinu» (E te, Bacco, invocano con lieti carmi e in tuo onore appendono oscilla agli alti pini).
Il termine latino oscilla, da cui l’odierno «oscillazione», deriva da os-oris, bocca o più estensivamente faccia; probabilmente in origine un’effigie del dio stesso. Dunque è in onore di Dioniso, durante le Paganalia o le Sementivae faeriae, feste della semina, che vengono fatte dondolare queste immagini. Durante i Compitalia invece, feste in onore dei Lari, venivano appese figurine in legno che rappresentavano gli schiavi e i bambini della famiglia.
Nel periodo imperiale, infine, ogni casa aveva, sospeso tra i portici, un oscillum raffigurante varie divinità, sempre con una qualche ascendenza o correlazione dionisiaca. A questo proposito un oscillum molto ben conservato è visibile nella chiesa di San Clemente in Laterano a Roma, proveniente dal mitreo sottostante.


Maria e l’altalena
Anche la religione cristiana originaria assumerà caratteri dionisiaci, basti pensare a Gesù che si definisce «la vera vite» (Giovanni XV, 1-2) e come gli apostoli si debbano attaccare a lui «come grappoli al tralcio». L’anima cristiana si considerò, come l’orfica, serrata al corpo come in un sepolcro.
La teologia cristiana è in parte esoterismo dionisiaco: consideriamo soltanto la centralità del vino come simbolo di resurrezione. Ma, forse più essenziale ancora, è la relazione tra la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella concezione patriarcale cristiana, e Gesù, suo figlio, attraverso un rito che implica una oscillazione collettiva.
A Taranto, il Giovedì santo, la Madonna addolorata cerca il figlio morto nei sepolcri allestiti presso le varie chiese. Osservando la processione che la accompagna si notano subito i Perdoni che, a piedi scalzi, i volti coperti da un cappuccio (torna la maschera!), nazzicano, cioè si cullano – questo significa in dialetto la parola – assumendo questa camminata dondolante tutta la notte.
Anche chi porta la statua nazzica, come pure i fedeli tutti. Se si osserva lo sguardo della statua, oltre il velo nero (Eros e Thanatos) che lo adombra come fosse quello di una danzatrice del ventre – altra forma della maschera – si capisce che questo cercare non è dettato solo dal dolore, ma dalla volontà di dargli la possibilità di risorgere: è lei che fa rinascere il figlio.
Joseph Roth ne La cripta dei Cappuccini dice ad un certo punto: «Sempre una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indifferente se questi se n’è andato in un paese lontano, in uno vicino o nella morte».

E questa attesa è un sentimento attivo, una forma di volontà, e produce una forza che tiene vivo il ricordo e dunque viva la persona.
Quando questa volontà viene esercitata da una moltitudine di persone diviene un atto di fede in grado di rigenerare la Vita.
Attis e Cibele, Dioniso e la Grande Dea attraverso la Basilinna nelle Antesterie… sono gli antecedenti divini del Cristo, così come Maria è ciò che ci rimane della Grande Madre.
L’ottica ecclesiale ovviamente capovolge polarmente la simbologia: il patriarcato cattolico ha voluto transustanziare la naturale rinascita della vita in quella della resurrezione eterna di un corpo morto, attribuendola al potere del Dio padre.
Ha spezzato così il nesso matriarcale tra vita, morte e rinascita, con la conseguenza evidente di far allontanare ancor più l’umanità da questo mondo e dal rispetto per la ciclicità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto la croce a deporre il Figlio è la Madre.
E dunque per il principio degli elementi costanti che regna nel mitologema della rinascita del figlio autogenerato da parte della Madre- essendo lo Spirito Santo emanazione di lei e non altro da lei – la lettura autentica del rapporto tra Maria e Gesù è chiara.
Questa non è una interpretazione eretica, ma solo l’evidenza della naturale evoluzione che parte dal rapporto tra la Grande Dea ed il suo paredro, prima figlio, dopo amante, poi in morte da Lei stessa fatto rinascere.
Se il femminile riprendesse le fila e rivoltasse in questo senso la tela della realtà simbolica cambierebbe radicalmente anche quella fattuale.

Una modesta proposta

Ecco, allora avanziamo, a mo’ di conclusione, una modesta proposta, partendo dalla domanda: dove sono finite le altalene oggi? Perché nei parchi pubblici ai bambini vengono proposte quelle squallide apparecchiature munite di cinture di sicurezza, con una escursione di poche decine di centimetri, basse ed impiantate su basi di grigio tartan? Come faranno questi bambini esperienza del loro volo immaginario? Dove incontreranno la «vertigine»? Quando potranno, con la coda dell’occhio socchiuso nel sorriso estatico del volo pericoloso, intravedere Dioniso bambino che spunta nella luce del sole?
La scomparsa delle altalene dai parchi pubblici è la prova provata della violenza crescente che il nostro modello di civilizzazione esercita sui bambini, ovviamente con la scusa della “sicurezza”. Privati del sensibile, essi si rifugeranno nell’insensibile, nel consumo senza soddisfazione, poiché è solo l’investimento emozionale che immettiamo nel gioco che lo rende libidicamente produttivo, soddisfacente; è il rischio della morte, e la sua visione, il vortice, che penetrano sino all’interno delle nostre ossa sino agli ultimi fondamenti del sangue, mentre oscilliamo pericolosamente, a rendere il gioco perfettamente dionisiaco, erotico, liberatorio e creativo.
Per ritrovare qualcosa del genere dobbiamo andare nei Luna Park contemporanei, in cui enormi aggeggi meccanici ci fanno provare sensazioni simili a quelle che una volta cercavamo sulla tavoletta sospesa tra i rami di un albero. Ma oggi, a differenza di quel tempo, l’illo tempore della nostra infanzia, i ragazzi sono imbragati, legati da camice di forza dentro macchine che fanno vivere, a pagamento, un fugace brivido che non è né estasi né paura. L’altalena dei parchi pubblici odierni, con i suoi edulcorati epigoni da Luna Park, sta dunque a quella alta ed infinita di un tempo come la pornografia d’accatto sta all’eros.

L’altalena vera, invece, evoca in noi un’energia che esige di essere immaginata. E non è forse questa sensazione di ricreare il futuro attraverso le immagini, di cui abbiamo bisogno per vivere l’infanzia? Di una «gioia incorporea che ha appena dato inizio alla sua corsa», come scrive Shelley? Immaginare significa innalzare di un tono il reale; la gioia dell’altalena, del corpo in altalena, riproduce nel microcosmo della nostra oscillazione ascensionale la stessa dinamica dell’universo in espansione.
Forse possiamo arrivare a pensare, chi scrive lo pensò molte volte, che se morissimo nel punto massimo di elevazione, il nostro corpo resterebbe li, sospeso nel cielo.



http://ilmanifesto.info/il-mito-dellaltalena/
http://www.cavernacosmica.com/il-solstizio-destate-e-san-giovanni-decollato/

lunedì 3 ottobre 2016

LUCIFERO IL PORTATORE DI LUCE...



Il genio del male, scultura rappresentante Lucifero conservata nella cattedrale di San Paolo a Liegi (Belgio)



La mistificazione cattolica della figura di LUCIFERO, portatore di LUCE, messaggero di liberazione dell'uomo, STELLA DEL MATTINO, parificato nei secoli strumentalmente alla figura di Satana, inteso religiosamente come entità divisoria del MALE, ha prodotto l'errata sovrapposizione dei due termini.
E' facile comprendere come il potere temporale ecclesiastico abbia ripreso un'accezione volgare dal vecchio testamento per stabilire i dogmi futuri sull'uomo e sui popoli schiavi, prova ne è stato il dominio secolare della Chiesa di Roma.
Il vero satanismo, sempre nella sua accezione religiosa e profana di MALE ASSOLUTO sugli uomini, è paradossalmente ascrivibile proprio alla condotta storico politica della tirannia della Chiesa di Roma.
Furono proprio loro a percorrere quella strada arimanica nei fatti, attraverso dogmi imposti per il controllo emozionale dei popoli, attraverso guerre, crociate, colonialismi, epurazioni etniche, schiavismo, attraverso saccheggi culturali, sapienziali, annettendosi saperi poi negati alle masse soggiogate in altre terre, attraverso la coercizione spirituale ed il relativo svuotamento del significato profondo della dimensione interiore, vietati proprio perché pericolosi per il naturale e logico risveglio delle coscienze.
La manifestazione iconograficamente più satanica, sempre nell'accezione distorta cattolica, è stata paradossalmente proprio quella della Santa Inquisizione con le sue pratiche di tortura e di sadismo gratuito, con  i roghi degli eretici e degli uomini liberi, con i suoi infiniti rituali di sangue esposti nella pubblica piazza fino al tardo 800.
La Chiesa ed il suo "Potere Temporale" ha ben contribuito in 2000 anni di storia alla visione più deleteria "materialista", nel suo significato di potere terreno, altro che spiritualità, altro che CRISTO, altro che ALTO ASTRALE, essa ha alimentato i veri inferi del sottobosco del Basso Astrale, alla pari del suo "figlio satanista", prodotto che ne condivide, ribaltandone, tutti i suoi simboli, essendo intimamente interconnesso ad essa nei suoi aspetti più crudeli e deleteri, uguali/opposti.
Ci sono stati ovviamente anche grandi personaggi illuminati e diversi esempi positivi storici nella Chiesa di Roma, la maggioranza di loro innovatori od oppositori, portatori anch'essi di Luce, che hanno contrastato ed elevato il cristianesimo corrotto dallo schema del potere consolidato in migliaia di anni bui. Alcuni di questi avevano una visione più sociale e libertaria rispetto al dogma cattolico, luciferici nelle loro azioni e pensieri, portatori di luce come fu la figura storica, meta-storica e/o archetipica del CRISTO.
Il potere cattolico ha "controiniziato" il significato cristico, svuotandolo del suo impatto rivoluzionario, politico e sociale, riducendolo a puro esempio di sacrificio rituale, determinandone la valenza simbolica di MEMENTO MORI per tutti coloro che osano contrapporsi ai mercanti del Tempio in ogni tempo, riducendolo ad iconografia popolare, negandoci il suo ruolo, in primis, di liberatore, ergo di DIVISORE del dogma e non di "divide et impera" tra comuni mortali.
In questo sovrapponibile con colui che porta luce ed accende la coscienza, come SE' SUPERIORE individuale e poi collettivo, come gnosi proto-anarchica della condotta esistenziale dell'uomo in questa landa desolata e senza DIO chiamata terra.
Cristo stesso come valenza egregorica ed archetipica, rappresenta l'esatto contrario della Chiesa di Roma che ne ha rubato le vesti per ridurlo solo a figlio di DIO, "eliminando" dal vocabolario non scritto il termine D'IO.
I mercanti del tempio cattolico, come di qualsiasi tempio, sarebbero cacciati fuori in malo modo, il cattolicesimo pretende di rappresentarlo, ma la sua mistificazione verte in chiave divisoria.
Con la Chiesa la figura cristica smette di indossare i suoi abiti "antagonisti" per indossare gli abiti sacrificali, usati come strumento e monito per soggiogare i fedeli che smettono di essere realmente spirituali e liberi, proiettando esternamente la loro divinità naturale interiore in un avatar artificiale esterno, prodotto dal cerchio magico sacerdotale millenario, sicuramente scevro della innata poesia tribale animista, ma ad esso legato come un feticcio atavico al quale delegare la propria schiavitù, l'esatto contrario del significato rivoluzionario storico, politico, filosofico, gnostico di colui che libera l'uomo dalle sue catene donandogli il dubbio ed il libero arbitrio.
Questo a prescindere sia esistito o meno un Gesù di Nazareth o siano esistiti più liberatori in terra di Palestina e prima, altrove.
Diventando, infine, il contenitore sistemico delle istanze popolari terrene e dell'anima, ne ha ribaltato i connotati, spegnendo la sua egregora innovatrice, continuando ad alimentare la fiamma dello status quo, trasmutato da sacro Romano Impero a Chiesa di Roma, attraverso lo schema del potere che si replica all'infinito.
Il politeismo antico è divenuto il culto dei santi, la Grande Madre è diventata Maria, madre e matrice dell'uomo, ereditando tutto il pantheon deistico dal passato, adattandolo alla propria iconografia religiosa di stato per mantenere con diverso nome lo scettro del comando, adattandosi ai costumi di ogni epoca, dettando regole e dogmi, plasmandoli nel tempo e nel Tempio.
"Fu Lucifero che aprì gli occhi all'uomo creato da Jehovah, divenendo perciò suo avversario, con il conferirci, benché ad un elevato prezzo, l'immortalità spirituale, per la quale non eravamo ancora preparati. Rese possibile lo sviluppo nella nostra coscienza di una attività libera, incorporando però nello stesso tempo la possibilità dell'errore, del male interiore originato dalle passioni. Lucifero è inoltre una figura di primissima importanza nell'evoluzione dell'umanità, poiché insegnò all'uomo la conoscenza del bene e del male, aprendo per la stirpe umana sentieri che le erano vietati."
cit. Dizionario esoterico Rosacrociano


Il termine Lucifero significa letteralmente "Portatore di luce", in quanto tale denominazione deriva dall'equivalente latino lucifer, composto di lux (luce) e ferre (portare), sul modello del corrispondente greco phosphoros (phos=luce, pherein=portare), e in ambito sia pagano che astrologico esso indica la cosiddetta "stella del mattino", cioè il pianeta Venere che, mostrandosi all'aurora, è anche identificato con questo nome. Nella corrispondenza tra divinità greche e romane l'apparizione mattutina del pianeta Venere era impersonificata dalla figura mitologica del dio greco Phosphoros e del dio latino Lucifer. 
Analogamente in Egitto Tioumoutiri era la Venere mattutina.
Nell'antico Vicino Oriente, inoltre, la "stella del mattino" coincideva con Ishtar per i Babilonesi, Astarte per i Fenici.
In ambito gnostico ed esoterico, Lucifero sarebbe invece un detentore di sapienza inaccessibile all'uomo comune viziato dal plagio emozionale cattolico e messaggero illuminato come archetipo di liberazione, tentatore si, ma inteso come portatore di scelta e di libero arbitrio, colui che insegna a pescare e non colui che fa la carità per concessione del sovrano.
Inteso filosoficamente come SE' superiore, padre invisibile dell'illuminismo e della massoneria delle origini, essere luminoso, ergo figura positiva sovrapposta erroneamente, non a caso dal Clero, alla figura archetipica di Satana.

Lucifero o Lucifer è una divinità della luce e del mattino della mitologia romana, corrispondente alla divinità greca della luce: Eosforo ("Portatore dell'Aurora") o Fosforo ("Portatore della luce"), nome dato alla "Stella del mattino", era figlio di Eos (dea dell'Aurora) e del Titano Astreo e fu padre di Ceice (Ceyx), re di Tessaglia, e di Dedalione.
Mentre del culto di Lucifero come divinità legata a Venere non abbiamo traccia, esistevano culti dedicati a divinità definite "Lucifere" (cioè Portatrici di Luce) come Diana e Giunone.
Oltre a queste, tra le Divinità Maschili Solari più conosciute che ritroviamo nel pantheon greco-romano vi è Apollo, di cui un epiteto era Phosphoros (ΦΑΕΣΦΟΡΟΣ in lettere greche), che tradotto in latino è Lucifer, Lucifero appunto.
Il giudaismo ortodosso attuale nega l'esistenza di qualsivoglia entità spirituale che non sia Dio (quindi angeli e demoni propriamente detti), considerandoli rispettivamente come o messaggeri umani o emanazioni impersonali della potenza di Dio.
La Jewish Encyclopedia afferma che l'identità fra Sataniel (Satana) ed Helel (Lucifero) risale già a un secolo prima dell'era cristiana, quando alcuni scritti ebraici, come il Secondo Libro di Enoch e la Vita Adam et Evae del I secolo d.C. circa, interpretarono un passo di Isaia e uno di Ezechiele nello stesso senso adottato in seguito dai Padri della Chiesa, riferendolo cioè al racconto della Caduta degli Angeli capeggiati dall'arcangelo Samhazai (o Samyaza, cioè "ladro del Cielo"), che sarebbe appunto altro nome di Sataniel. 
Tale passo della Jewish Encyclopedia fa riferimento a tre paragrafi di due fonti dove si parla della caduta di Satana come angelo, ma il termine relativo a Lucifero (e le sue varianti come stella del mattino) non sembra essere presente, quindi tale associazione, con le conseguenze teologiche che ne conseguirebbero, andrebbe presa con molta cautela. Al vaglio, non sembra che altrove esista una documentazione nella letteratura giudaica extra-biblica del termine Lucifero e sinonimi.

Nell'Antico Testamento, Lucifero (in ebraico הילל o helel, in greco φωσφόρος, in latino lucifer) è il nome classicamente assegnato a Satana dalla tradizione giudaico-cristiana in forza dell'interpretazione prima rabbinica e poi patristica di un passo di Isaia.
Più precisamente, Lucifero è considerato essere il nome di Satana prima che Dio lo facesse precipitare dal Cielo. 
Mentre Michele sarebbe il capo delle schiere angeliche, Lucifero/Satana sarebbe il riferimento degli angeli ribelli e precipitati negli Inferi.
Nella Vulgata, cioè la versione in latino della Bibbia, il termine lucifer è utilizzato nell'Antico Testamento solo quando il profeta Isaia lo applica al re di Babilonia, la cui caduta è oggetto dell'ironia del profeta. I Padri della Chiesa tennero conto del frequente accostamento di Babilonia al regno del peccato, dell'idolatria e della perdizione sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, nonché dei quattro sensi delle Scritture, e identificarono il Lucifero di Isaia con il Satana di Giobbe e dei Vangeli.



Il passaggio logico che ne emerge è che il termine Lucifero è stato usato impropriamente ed associato a figure che hanno queste caratteristiche: superbia, tentativo di equiparasi a divinità, trasgressione, caduta dal cielo (intesa come gloria, ma poeticamente parallelo al fulgore come stelle che stanno in cielo), cherubino (il cui significato si è trasformato con lo sviluppo della angeologia) e vari altri. Vista la numerosa presenza di testi scritti in cui Satana, che da attributo (il satana=l'accusatore, in ebraico) si è trasformato in personificazione, è identificato come: angelo, creatura di Dio, superbo, ribelle, caduto dai cieli, fautore del male e della seduzione e via dicendo, diventandone a tutti gli effetti un sinonimo.
Il nome "Lucifero" compare nel Nuovo Testamento solo per indicare la STELLA DEL MATTINO e in senso traslato Cristo, la cui futura seconda venuta in terra segnalerà l'inizio di un mondo nuovo di luce: Pietro 1:19:"et habemus firmiorem propheticum sermonem cui bene facitis adtendentes quasi lucernae lucenti in caliginoso loco donec dies inlucescat et lucifer oriatur in cordibus vestris."
La Nuova Diodati: "Noi abbiamo anche la parola profetica più certa a cui fate bene a porgere attenzione, come a una lampada che splende in un luogo oscuro, finché spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori."
Nell'Apocalisse Cristo stesso si definisce "stella radiosa del mattino" (22,16) e promette la "stella del mattino" come ricompensa per chi persevera nelle buone opere (2,28).
Nei primi secoli della Chiesa, quindi, il nome Lucifer è stato considerato un titolo di Cristo: per esempio nell'inno Carmen aurorae, o come un nome adatto per i bambini cristiani.
Vedi San Lucifero, il vescovo di Cagliari (morto nel 370).


La Tentazione e la Caduta di Eva, di William Blake

Accanto alla tradizione teologica e letteraria riguardo Lucifero si sviluppò, già nei primi tempi di fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che tentò la reinterpretazione della figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l'uomo dalla tirannia del Dio Creatore. Secondo tale dottrina, che ha radici tanto nel Marcionismo quanto nel Manicheismo, il serpente/Lucifero descritto nel Genesi sarebbe colui che ha indotto l'uomo alla conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque all'elevazione dell'uomo a divinità, pur contro la volontà del Dio supremo che avrebbe voluto invece mantenere l'uomo quale suo suddito e schiavo, cioè quale essere inferiore.
In tale dottrina il nome Satana scompare quasi del tutto in favore del nome Lucifero, che viene interpretato alla lettera come "Portatore di luce" e viene perciò eletto quale salvatore dell'uomo.
Tutto ciò è in evidente antitesi con la concezione classica del Cristianesimo, secondo la quale invece l'aspetto luminoso di Satana è solo un mascheramento e uno strumento di seduzione. 
È San Paolo il primo a ricordare che:
« anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere. » 
 (2 Corinzi 11,14-15)

Comunque l'idea di Lucifero come principio positivo nonché il suo accostamento alla figura di Prometeo saranno dei motivi ripresi da una lunghissima tradizione gnostica e filosofica che nella storia ha trovato echi nell'Illuminismo, nella Massoneria, nel Rosacrocianesimo, nel Romanticismo di Byron, di Shelley, di Baudelaire e persino di Blake.
Tutta questa enorme cultura, la cui matrice luciferica è rimasta sempre più o meno celata, può essere compendiata nel termine luciferismo (o luciferianesimo) inteso come controparte del satanismo, ove quest'ultimo accetta l'identificazione di Lucifero e Satana e anzi venera proprio l'aspetto tenebroso e demoniaco di Lucifero/Satana, mentre la visione luciferiana usualmente non accetta tale identificazione oppure l'accetta solo per risolvere l'aspetto "satanico/divisorio" nell'aspetto luciferino (cioè l'aspetto tenebroso nell'aspetto luminoso). 
Posto che satanismo e luciferismo non si oppongono l'uno all'altro, il culto di Lucifero come entità spirituale oppure più semplicemente come simbolo ideale ha come presupposti teologico-filosofici l'identità fra Dio e Sophia (la Sapienza) e dunque la divinità della luce di conoscenza nell'uomo, nonché infine la benignità essenziale di qualsiasi entità che sia Portatrice di luce, cioè portatrice di conoscenza.
Secondo tale visione dunque le figure archetipiche di Cristo e Lucifero o sono figure complementari, oppure sono addirittura la stessa persona in due aspetti e momenti diversi, per cui il Satana che compare nei Vangeli sarebbe stato anche il tentatore di Lucifero all'inizio dei tempi (il che presuppone la non-identità fra Lucifero e Satana). 

Analogamente Rudolf Steiner distingue Arimane da Lucifero, sostenendo come «gli spiriti arimanici, o spiriti mefistofelici, sono quelli che propriamente (se si prendono i nomi con esattezza) vengono chiamati dalla concezione medioevale gli spiriti di Satana, da non confondersi con Lucifero». 
Una forza malefica ancora più antica di Arimane è infine quella degli Asura, che comincerebbe a far sentire i suoi influssi solo a partire dall'epoca attuale e sempre più in avvenire.
Il massone Albert Pike scriveva nel suo libro Morals and dogma: "Lucifero è l'incarnazione della ragione, dell'intelligenza, del pensiero critico. Egli si erge dinanzi al dogma di Dio e a tutti gli altri dogmi. Egli sostiene l'esplorazione di nuove idee e di nuove prospettive nella ricerca della verità."