Il caso ALINOVI riemerge dopo 30 anni di sonno e rimozioni...
Interessante a livello evocativo e simbolico, ma anche come suggestione sacrificale, quello che scrisse Bernardi...
Scrive a questo proposito Luigi Bernardi nel suo Macchie di Rosso – Bologna avanti e oltre il delitto Alinovi (Zona Editrice, 2002):
A Bologna, per fare un buon piatto di tortellini, bisogna ammazzare tre animali diversi: un maiale per il ripieno; una gallina e un manzo per il brodo.
Sua maestà Tortellino chiede il suo tributo di sangue. Lo chiede e sa ottenerlo.
Comincia dunque in macelleria una delle glorie massime di questa città. Gli animali si ammazzano con un colpo secco, micidiale. Chi ammazza gli animali impara presto come si fa.
Non fosse altro per non sentire a lungo i lamenti, che prendono subito una tonalità “umana”, da far arricciare la pelle.
Nella storia di Bologna c’è un prima e un dopo l’assassinio di Francesca Alinovi, quel delitto è la radiografia di una frattura. Poco meno di tre anni prima, Bologna era stata scossa da ben altra deflagrazione, l’attentato alla stazione, la strage. Ne era rimasta tramortita, aveva allentato i riflessi, smorzato gli slanci, persino i desideri. Bologna è sempre stata una città che ha voluto, e potuto, scegliersi la propria velocità, in questo consisteva il suo famoso essere diversa.
Bologna era un mondo a parte: per alcuni un paradiso che non si abbandona più, per altri un inferno da spegnare ad ogni costo.
I delitti del DAMS sono contestualizzati nel post 77, un pò come capitolo finale e tragico della morte di un certo antagonismo politico e culturale. Trasformarono Bologna, ne influenzarono l'opinione pubblica e cambiarono quell'immagine di città sicura e accogliente di un tempo, immagine ed icona già fortemente condizionata e mutata dalla strage della stazione in avanti...
Sembrano tutti far parte di un'unica regia occulta che punta il dito sull'antagonismo e sui movimenti del 77, sul desiderio di una generazione che voleva cambiare il mondo, sembrano voler dare l'esempio dall'alto a chiunque non si allinei al sistema, prevedendo di far pagare un contrappasso.
Basta cultura, ancor peggio se quella cosiddetta alternativa ed appartenente ad un determinato ambiente, basta proteste, la piazza doveva essere divisa, depressa, spaventata e repressa...
Colpirne uno per educarne cento!!!
Bologna è stata spesso teatro di guerra, basti ricordare i delitti della UNO BIANCA, il delitto recente di Biagi, tutti esempi di strategia della tensione creata dai servizi per spostare l'asse politico, ma anche EMOZIONALE della città a destra.
Una sorta di rieducazione indotta e di segnale di mutamento strutturale.
Bologna non doveva più rappresentare quella culla di benessere sociale dei tempi passati, vero o presunto che fosse, ma doveva diventare una scenografia rituale per il nuovo che stava avanzando, ovvero l'assetto politico che stava nascendo sul panorama nazionale e internazionale.
Assetto dove la sinistra doveva smettere di essere tale e doveva contaminarsi sempre più con i poteri forti che, a breve, avrebbero fatto cadere il muro di Berlino e VINTO contro il loro decennale contraltare sistemico, rappresentato dal blocco sovietico.
Antagonismo che andava eliminato, trasformato, trasmutato e fagocitato dalla nascente globalizzazione orwelliana fascista per conto della tecnofinanza, delle massonerie reazionarie e di tutti i poteri del network che oggi domina la scena in Italia e nell'occidente, senza più alcuna opposizione, in primis culturale, poi politica ed economica...
Un esempio dall'alto, un capitolo della strategia della tensione praticata anche attraverso nuovi omicidi mediatici creati ad hoc con finti capri espiatori che, come nel caso dello scrittore Carlotto, vedevano accusati giovani di sinistra, magari appartenenti a qualche gruppo rivoluzionario o semplicemente persone da indicare come colpevoli, associando quella parte politica a determinati crimini che traumatizzavano l'opinione pubblica e, soprattutto, creavano quel substrato sottoculturale, atto ad innestare in seguito quelle dinamiche di pensiero che populisticamente avrebbero favorito tangentopoli, la Lega, l'ascesa ventennale di RE SILVIO per conto della P2 e la sconfitta della sinistra, favorendo la sua dissoluzione partitica, dopo averla cooptata, trasformata ed eteroguidata...
Come nel caso Carlotto e nelle vicende di Battisti, Ciancabilla scappa prima in Francia, dove esisteva e forse esiste ancora la rete massonica della Rosa Bianca, network progressista che gestiva dall'alto i gruppi di clandestini politici di sinistra e di persone accusate ingiustamente e rese colpevoli da un sistema giudiziario spesso conservatore e corrotto...
Curioso come tutti loro, da contrappasso massonico, siano diventati scrittori di successo i primi due ed il terzo, si sia rimesso a dipingere e fare mostre in diverse gallerie ...
Sono storie apparentemente differenti ma con elementi e destini comuni, stranamente o logicamente, a seconda dei casi, IDENTICI...
Sembrano tutti quanti capri espiatori creati e manovrati sia dal nemico che dall'amico, pedine all'interno di un gioco molto più grande di loro, strumentalizzati per soddisfare LIVELLI di potere della stessa piramide, dove convivono e si fanno guerra contemporaneamente e sincronicamente diverse fazioni occulte del parlamento massonico, coesistendo nelle reciproche differenze attraverso DOPPI LIVELLI di modus operandi ed appartenenze allo stesso macro sistema...
Tutto ciò mostra come sia le stragi che certi delitti mediatici, sono parte integrante della stessa strategia della tensione, della stessa distrazione di massa e soprattutto, siano emanazione diretta di certi poteri, oggi sempre meno occulti...
Tornando ai delitti del DAMS, possiamo ricordare quello che precedette il più celebre caso ALI-NOVI, ovvero quello del povero ANGELO Fabbri di 26 anni, uno dei più brillanti allievi di Umberto Eco, che in quel periodo conquistò la sua fama con il romanzo “Il nome della rosa”.
Fu trovato morto il 31 dicembre 1982 da due cercatori di tartufi in Val di Zena, e su quel corpo furono rinvenute dodici coltellate alla schiena. Sei di quei colpi furono mortali e la profondità delle ferite differente, come se le mani fossero state diverse. Peraltro, la disposizione dei colpi inferti sembra seguire una linea circolare. Inizialmente gli investigatori si indirizzarono verso una giovane coppia, perché la donna apparteneva al movimento del ’77, complice anche una fotografia mentre seguiva la bara di Francesco Lo Russo, lo studente di medicina ucciso in via Mascarella l’11 marzo del 77.
Umberto Eco disse di ANGELO fabbri morto il 31 dicembre dell'82:
"Escluso il movente politico perché era fuori da quell’ambiente; esclusa la droga, escluso il delitto omosessuale perché Angelo non lo era, ed esclusa la rapina, io comincio a pensare che Angelo abbia messo inavvertitamente piede in un ambiente malavitoso: magari una storia con una ragazza, ledendo il codice d’onore del gruppo. Un delitto motivato da una vendetta organizzata. Angelo era curioso, come d’altronde tutti questi studenti, e avrebbe avuto anche facilità, considerata la zona in cui abitava, a entrare in contatto, un contatto di curiosità, di rapporto umano, con certi ambienti notturni. Una volta gli offrirono da bere della birra, lui disse di no e si prese un sacco di botte. Ecco, forse Angelo ha varcato la soglia del gruppo e lo hanno ucciso."
Il terzo omicidio fu quello del 29 novembre 1983, quando Leonarda Polvani (ma tutti la chiamavano Lea), una ragazza di 28 anni, fu uccisa con una pistola calibro 6.75, pistola già usata in un altro omicidio a Roma dove morì una donna in circostanze misteriose. Dinamica rituale già vista altre volte attraverso l'uso di pistole simili e sospette, come quelle usate anche per i delitti del mostro di Firenze, dove la stessa arma viene più volte utilizzata e magari appartiene pure ai piani alti del potere militare... I giornali dell'epoca accostavano i delitti di Bologna, non a caso, a quelli di Firenze e il gioco perverso mediatico funzionava bene, evocando un clima di terrore e di sconforto tra la gente...
Anche in questo caso furono accusati sedicenti brigatisti come potenziali assassini...
Il corpo fu trovato nelle grotte della Croara a San lazzaro vicino a Bologna, aveva i vestiti sollevati e riportava un colpo mortale esploso da distanza ravvicinata al cuore...
Furono accusati inizialmente degli innocenti e strumentalizzati anche per i primi delitti della UNO BIANCA.
Quindi si può notare come la vicinanza di certi ambienti dei servizi abbiano manipolato tutte queste storie per diversi fini politico-militari, di cristallizzazione del sistema da un lato e dall'altro di trasformazione dello stesso, virando l'asse sempre più a destra...
Tre omicidi contenuti nella stessa sceneggiatura e nella stessa trama ben orchestrata dai poteri occulti, dove si da in pasto ai fedeli il corpo rituale e dall'altro si inizia il nuovo corso che porterà, anche attraverso questi delitti, intesi e contestualizzati come tasselli, all'edificazione di quel Tempio che oggi rappresenta il NUOVO ORACOLO...
ELEMENTI SIMBOLICI:
Nel diario della ALI-NOVI si notano determinati numeri, sempre gli stessi, che si ripetono ossessivamente, per esempio l'11 e i suoi multipli... un caso curioso, dato che avrebbero una valenza numerologica precisa...
In una pagina di 11 righe, scrisse 77 volte SOLA, SOLA...
Altro numero che ritorna spesso nel suo diario è il 13!!! Ci sono tantissimi esempi suggestivi, come la scritta trovata in bagno che ricorda un rebus, un indovinello...
Ci sono strane poesie, riferimenti alla trasmutazione attraverso concetti come AMORE-MORTE e il loro superamento carmico, presagi su qualcosa di brutto che dovrà accadere e che poi nei fatti accadrà realmente...
Sembrano versi degni della GOLDEN DAWN dell'800, amore che si completa con la morte, i FEDELI DELL'AMORE... Roma o Morte, ecc... ecc...
Da notare come la stessa simbologia rituale CLASSICA massonica, compaia sulla scena del delitto ALI-NOVI, e quella ROSA ROSSA di plastica che sembrava voler rappresentare il loro finto amore o amore non consumato ma invece rappresenta una chiara e palese firma rituale, viene ritrovata sopra il suo cadavere riposta dall'assassino...
Da notare che la ROSA ed il suo mistero millenario, compaiono "indirettamente" anche attraverso ECO, con IL NOME DELLA ROSA. Docente del povero ANGELO Fabbri e intellettuale di spicco del nuovo mondo universitario del DAMS, ECO si consolida come faro della sapienza del sistema...
Da notare anche i nomi delle vittime, assolutamente non casuali, ALINOVI, nuove ali, nuovo angelo, o meglio, angelo caduto dal cielo, ovvero simbolicamente lucifero, ANGELO Fabbri, ovvero l'ANGELO costruito, fabbricato, edificato e LEA, il leone morto nella grotta della CROARA, nome che sembra un quasi acronimo sia di ROSA che di CROCE, già sito esoterico usato spesso da zelanti neo satanisti bolognesi in cerca di fortuna, da curiosi giovanotti come luogo magico e orrorifico per vere o presunte messe nere, da coppiette in cerca di forti emozioni, e quindi anche dai servizi, come location EVOCATIVA...
Abbiamo rose, ma soprattutto abbiamo dinnazi a noi la rappresentazione del TETRAMORFO DELL'APOCALISSE, ovvero un angelo, ANGELO FABBRI, un'aquila ALINOVI, un leone LEA e un toro, incarnato dal capro espiatorio CIANCABILLA... Sembra una raffigurazione iconografica composta da quattro elementi risalente ad una simbologia di origine mediorientale.
Nella tradizione cristiana, e nella storia dell'arte, il termine viene normalmente utilizzato per indicare l'immagine biblica composta dai quattro simboli degli evangelisti - un uomo alato, un leone, un toro e un'aquila - mutuata da una visione veterotestamentaria del profeta Ezechiele e dalla descrizione neotestamentaria dei "quattro esseri viventi" contenuta nell'Apocalisse...
I delitti del DAMS rappresentano simbolicamente anche un passaggio storico ed una parte di edificazione del TEMPIO, attraverso l'uso controiniziatico dell'iconografia cristiana, che tra parentesi, è già controiniziata per natura...
IL DELITTO, OPSS, IL TETRAMORFO E' SERVITO... !!!
http://www.corriere.it/cronache/08_luglio_13/scrittore_giallo_trevi_f09858dc-50ad-11dd-b816-00144f02aabc.shtml
di EMANUELE TREVI
COME TANTE STRADE MEDIEVALI DELLE CITTÀ ITALIANE, ANCHE VIA DEL RICCIO NEL CUORE DI BOLOGNA DAL PUNTO DI VISTA DELLA FORMA E DELLE DIMENSIONI CORRISPONDE PIÙ A UN VICOLO CHE A UNA VIA VERA E PROPRIA. A UN CERTO PUNTO, LA CARREGGIATA SI RESTRINGE ULTERIORMENTE, CON UNA IRREGOLARITÀ CHE FA PENSARE PIÙ ALL'OPERA DELLA NATURA CHE AL LAVORO DEGLI UOMINI. FINESTRE DELLE CASE, DA UN LATO E DALL'ALTRO, SI FRONTEGGIANO IN UNA FORZATA PROMISCUITÀ.
Esattamente un quarto di secolo fa, la sera del 15 giugno del 1983, era stato impossibile per i pompieri parcheggiare la loro vettura sotto le finestre aperte dell'appartamento al secondo piano di via del Riccio 7, abitazione di Francesca Alinovi. Era uno di quei giorni afosi e soffocanti in cui anche le pietre delle vecchie case e le colonne dei portici, a Bologna, sembrano trasudare come corpi vivi. A sollecitare l'intervento dei vigili del fuoco, dopo tre giorni di attesa ed ansietà, erano stati due vicini di casa ed intimi amici di Francesca Alinovi, il disegnatore Marcello Jori e sua moglie.
Era dal pomeriggio di domenica 12 che Francesca, notissima critica d'arte e organizzatrice di mostre, oltre che insegnante al DAMS, aveva fatto perdere le sue tracce.
Non si era presentata, lei di solito molto precisa con i suoi molteplici impegni, a vari appuntamenti di lavoro, né era stato possibile raggiungerla al telefono. In genere, quando i pompieri devono effettuare un simile intervento, è comprensibile che non ci si aspetti niente di buono.
Ma la scena agghiacciante che si trovarono di fronte gli uomini penetrati nella casa di via del Riccio era di quelle che superano di gran lunga la più pessimistica delle previsioni.
La casa degli orrori
Nel salotto del piccolo appartamento Francesca Alinovi giaceva in una pozza formata dal suo stesso sangue, la testa nascosta da due cuscini. A mo' di macabra firma, o di patologico congedo, completava l'orribile quadro una rosa di plastica rossa. Quello che videro i pompieri e poi gli agenti della squadra mobile di Bologna accorsi a via del Riccio, per quanto tremendo, non è ancora nulla rispetto all'orrore che si nasconde nel linguaggio — di necessità ferreo nelle definizioni e distaccato da qualunque emozione soggettiva — dell'autopsia.
Un orrore che comincia dal numero delle ferite «da arma di punta e taglio» (forse un normale coltello da cucina) riscontrate sul corpo della vittima: ben quarantasette distribuite tra il volto, il torace, il collo, e le braccia impiegate in un estremo tentativo di difendersi. Ma c'è qualcosa di peggio che emerge dal referto: quasi nessuna di queste innumerevoli ferite può essere considerata mortale.
Nella maggior parte dei casi, la lama, o meglio la sua punta, era penetrata di pochissimo (circa un centimetro) nel corpo della vittima, come per lasciarle tutto il tempo, in un gioco più crudele della stessa violenza, di rendersi conto di quello che le stava succedendo.
Alla fine, un colpo al collo danneggiò la giugulare, e Francesca morì di una specie di edema, soffocata dal suo stesso sangue e forse dai cuscini che la coprivano.
L'amante assassino
Nata a Parma nel 1948, Francesca Alinovi non aveva ancora trentacinque anni al momento della morte. Le indagini della squadra mobile e del magistrato incaricato furono eccezionalmente rapide, se si pensa che sono bastati pochi giorni per arrivare all'arresto di colui che, per lo stato italiano, è il responsabile (senza complici) del delitto: il pittore pescarese Francesco Ciancabilla, all'epoca dei fatti un ragazzo di ventitré anni, legato alla Alinovi da un rapporto intricato e contraddittorio, che durava già da un paio d'anni tra crisi, riconciliazioni, litigi anche violenti.
Oggi Ciancabilla è un uomo libero, che ha pagato il suo debito con la giustizia (quindici anni per omicidio preterintenzionale) dopo aver trascorso da latitante una decina d'anni tra Brasile e Spagna. Assolto in primo grado, quando il vecchio codice penale ancora contemplava l'«insufficienza di prove», non ha mai smesso di dichiararsi innocente.
Quelle strane telefonate
In realtà, è stato un cumulo di indizi, più che una prova vera e propria, ad inchiodare l'imputato a partire dal secondo grado di giudizio. È rimasta famosa una frase dell'avvocato difensore: tante mele non fanno un melone. Ma queste «mele», vale a dire gli indizi incapaci di dar luogo al «melone» di una certezza indiscutibile, formano uno dei capitoli di questa tragica storia più capaci di accendere la passione dei cultori di gialli. Nell'elenco rientrano un orologio a carica automatica, innescata dal semplice movimento del polso; una misteriosa scritta in cattivo inglese trovata sulla finestra del bagno e vergata con una matita da trucco; una serie di telefonate nelle quali Francesca, via via che le ore del pomeriggio di quella maledetta domenica scorrono inesorabili verso l'ora della morte, appare sempre più triste o turbata; un pizzico di cocaina; un asciugamano scomparso; un paio di occhiali da sole… Ho elencato alla rinfusa fatti e circostanze rivelatisi fondamentali assieme ad altri che invece sono risultati del tutto inessenziali.
Il fatto è che una storia, qualunque storia, per colpire a così vasto raggio il cuore e l'immaginazione, trascina con sé, come fosse un fiume in piena, le verità più positive e le illazioni più futili, il sublime e il triviale, ciò che ci appare del tutto estraneo e ciò che invece riconosciamo, anche se non vorremmo, simile a noi. Tutto rimescolando in una specie di organismo narrativo ibrido, ormai né vero né falso. In quanto mito sociale e psicologico, ciò che chiamiamo la cronaca nera ha una vita ben differente dagli itinerari dei processi, con i loro gradi giudizio — ed è addirittura inutile ricordare quanto la confusione di questi piani è perniciosa.
Di un giudice che ragionasse come un giallista, ci sarebbe poco da fidarsi, insomma, e viceversa.
Più ambiguo, necessariamente, è il ruolo, letteralmente intermedio, del giornalista, che lavora sui fatti in quanto tali, ma è pure costretto, più o meno consciamente, a servirsi di schemi narrativi che garantiscano (fin dai titoli) efficacia al suo racconto. Ma le cose del mondo vanno così: in una prima fase (che può durare anni, come nel caso Alinovi) da un qualunque fattaccio si spremono indagini, e poi sentenze. Ma poi, chiusi i faldoni e archiviate le testimonianze e le perizie, quei fatti, quegli eventi ridotti alla consistenza di fantasmi, continuano a vivere nella memoria collettiva, e magari nella fantasia degli artisti, non più per determinarne la verità, ma per ricavarne una morale.
E se anche fosse fondata su un errore giudiziario, la storia che si presta a questa ulteriore ricerca di senso, la storia del tragico amore (amour-passion, dicono i francesi) di Francesca Alinovi e Francesco Ciancabilla non sarebbe per questo meno degna di meditazione.
Il diario di una donna di talentoBella, intelligente, coraggiosa nelle sue scelte Francesca è stata, non c'è dubbio, una persona eccezionale, dotata di un autentico carisma. A dispetto della brevità della sua vita, ha fatto a tempo a lasciare molte tracce del suo talento. Nata quasi alla metà esatta del suo secolo, ne condivideva l'amore per il nuovo, l'intentato, l'avanguardia. Aveva studiato a fondo il Dadaismo, la fotografia sperimentale nel suo incrocio di illusione e realtà, l'arte della performance. Aveva perlustrato a fondo le periferie di New York sulle tracce del talento dei nuovi graffitisti, quando Keith Haring e Basquiat erano praticamente degli sconosciuti.
Amava Kerouac, il cinema più visionario, la poesia come forma ultima del destino umano.
Si può essere figli del proprio tempo e insieme individui singolari, irripetibili. Un certo grado di fragilità emotiva, e una innata propensione ai legami difficili e alla deriva sentimentale, anziché sminuire, completano e definiscono ulteriormente il carattere di Francesca. Qualcosa, in questo senso, si ricavava già dalle testimonianze rese dagli amici a polizia e magistrati, ai tempi dalle indagini.
Da pochi mesi, però, è a disposizione di tutti un documento eccezionale, contenuto nell'ultimo capitolo del libro che Achille Melchionda, l'avvocato di parte civile della famiglia Alinovi, ha scritto ricostruendo, dal suo punto di vista privilegiato, l'intera vicenda (Francesca Alinovi: 47 coltellate, Edizioni Pendragon).
Si tratta del diario, contenuto in tre quaderni, che Francesca scrisse durante gli ultimi anni della sua vita, a partire dall'autunno del 1980. Le annotazioni si interrompono a poche settimane dalla morte, e sono tutte caratterizzate da quel singolare miscuglio di intelligenza ed emotività, apertura al prossimo e senso di solitudine, al quale accennavo. Ovviamente, noi leggiamo questa testimonianza alla luce del terribile destino di chi, giorno per giorno, l'ha scritta. Ma chi può dirsi sicuro di non conoscere, almeno in modo inconscio o puramente simbolico, il proprio destino? Ricorre spesso, nelle prime pagine del diario, una specie di ossessione, quella di essere già morta senza accorgersene, come accade al protagonista di un famoso racconto di Lernet-Holenia, «Il barone Bagge».
Anche l'abbassamento della vista potrebbe essere un indizio in tal senso: «Ai morti si chiudono gli occhi», riflette infatti Francesca, quando rimangono «rigidi e sbarrati» (come quelli, aggiungiamo noi, di tante vittime di morte violenta).
Spinosi e caratterizzati da una sorta di sindrome dell'impossibilità i rapporti con gli uomini, e con grande acutezza introspettiva, le tante soddisfazioni ricevute dal lavoro vengono interpretate come «compensazioni affettive».
Amore a prima vistaE arriviamo al 21 febbraio del 1981, il giorno del primo incontro con Francesco Ciancabilla.
È un innamoramento a prima vista per quel ragazzo più giovane di una decina d'anni, un amore «romantico, pittoresco», «da racconti di Pasolini». Una passione al cui scoccare non è estraneo un fortissimo sentimento di identificazione, come se Francesca, suggestionata anche dall'identità di nome con Francesco, si fosse imbattuta in una versione maschile di sé («assomiglia a me bambina, zingaresca e scalza sulla spiaggia di Forte dei Marmi»).
Da questa fatidica data, i diari seguiranno fino alla fine il copione universale dell'amore-come-calvario, della passione come malattia, quasi che Francesca si sia trasformata, sulle tracce del suo supposto alter-ego, in una specie di eroina romantica, di Adele H vagante tra i corridoi del DAMS e le gallerie d'arte di Bologna e New York.
I litigi sono sempre più spesso violenti. Ma il fatto che più fa soffrire Francesca è la castità che l'altro ha imposto al rapporto, fonte di frustrazione e di infiniti sospetti. Ma c'è una cosa sulla quale Francesca, così lucida anche nello smarrimento, sembra non aver riflettuto abbastanza: Francesco è un aspirante pittore, alla ricerca di un riconoscimento.
E dall'altro lato c'è lei, famosa e rispettata. Quando un critico non si limita (come in genere fanno gli accademici) a ricamare sul già noto, ma rischia alla ricerca di nuove personalità, si può dire senza esagerare che si prende una responsabilità tremenda. Attribuendo un talento a qualcuno, si collabora a una specie di seconda nascita, finendo per usurpare un ruolo materno.
E se ogni vittima prima o poi finisce per compiere un errore fatale di valutazione, io credo che l'errore di Francesca sia stato l'aver sottovalutato questo aspetto fondamentale di quel legame che tanto la impegnava e tanto la faceva soffrire. In ogni mestiere ci sono dei rischi tipici della professione: quello del critico (e soprattutto, direi, del critico d'arte) consiste, nel momento in cui «scopre» qualcuno, nel formare dal nulla un destino, un'identità.
Le eterne favole nere del Golem e di Frankenstein (per non parlare del vecchio Edipo !) stanno lì a dimostrare i pericoli che si annidano in quello che in apparenza è il più nobile, il più generoso dei gesti: essere responsabili, creare e plasmare la vita degli altri. Ai tempi dei processi, quando avidamente leggevo sui giornali ogni novità sul delitto di via del Riccio, ricordo che il dettaglio che mi aveva più colpito (e ho ritrovato nel libro dell'avvocato Melchionda) è una frase pronunciata dalla madre (quella vera) di Ciancabilla, nel legittimo intento di fornire un argomento per la difesa di Francesco: «L'aveva creato lei, come avrebbe potuto ucciderla?».
Ebbene, questa domanda dettata dal buon senso è terribile come tutto ciò che esprime una verità in modo del tutto involontario. E credo che stia lì tutto il sugo della storia, o almeno della storia che le indagini e i processi hanno consegnato alla nostra memoria. Proprio perché lo aveva creato, infatti, avrebbe potuto ucciderla.
E certo, non voglio con questo dire che i critici, e in generale gli scopritori di giovani talenti, farebbero tutti bene a togliere il loro nome dal citofono, o dotarsi di potenti antifurti e guardie del corpo. Ma a tutto ciò che esplode in un parossismo di violenza e di orrore corrispondono, in una data società, sentimenti affini, molto più diffusi anche se del tutto innocui.
È per questo che la cronaca nera è la parte del giornale che, oscuramente, riguarda un po' tutti.
E se non proprio tutti, tanti potrebbero testimoniare, guardando un po' a fondo nella propria coscienza, che fardello intollerabile sia quello della gratitudine, e a quali innominabili desideri si accompagni. Il pericolo, bisogna aggiungere, non sta mai nella natura umana in sé, ma nel fare finta che certe cose, sgradevoli e intollerabili solo a pensarle, non esistano.
di LUCA SANCINI
Alinovi, diari d' amore e morte
Questa sarebbe una vicenda con la parola fine. Francesco Ciancabilla, condannato a 15 anni per l' omicidio di Francesca Alinovi, ha finito di scontare la sua pena nel 2006. Quella brutta storia nata in un caldo pomeriggio di giugno, con la bella professoressa del Dams trovata in un lago di sangue nel suo appartamento di via del Riccio, riemerge a volte nelle ricostruzioni in tv o nelle serate dedicate alle vicende noir.
Lasciando sempre un retrogusto di delitto irrisolto, con ancora troppi misteri da svelare.
Ecco che, non per polemica ma per amor di verità, l' avvocato Achille Melchionda, legale di parte civile della famiglia Alinovi ha scritto un libro, quasi 25 anni dopo quelle 47 coltellate.
Una vicenda giudiziaria e umana, dice nel suo studio di piazza Minghetti, che lo rincorre ancora.
«In questi anni ho ascoltato tanti parlare dell' omicidio Alinovi, il Ciancabilla stesso, scrittori e giornalisti, ma c' è sempre una voce che tace. Quella di Francesca».
Ci sono ora i suoi diari che Melchionda ha tenuto in un cassetto per tutti questi anni: pagine intime, pensieri, racconti di viaggi, due anni di riflessioni affidate alla carta, intrisi di amore e morte.
Inizia il 18 settembre del 1980, racconta di passioni e incontri fuggevoli.
Della prima volta che incontra Ciancabilla e dopo scrive: "Ho incontrato Francesco, è il mio alter ego maschile". Poesie anche: "Non voglio morire e non posso amare". Le pagine si interrompono i 10 maggio 1983, trentatre giorni prima del delitto, dopo un viaggio a Istanbul dove l' ossessione per lo studente di Pescara non la lascia anche da lontano. «Fui contattato dal cognato di Francesca e assunsi la parte civile in un processo che ebbe un forte impatto mediatico, su giornali e televisione.
L' ambiente in cui si muoveva Francesca era quello degli artisti gli irregolari, gli istintivi, assuntori di sostanze stupefacenti. Lei, si disse, non poteva non subire queste influenze.
La verità invece stava dietro a quel rapporto tormentato di una donna innamorata di un uomo impossibile da avere. Caddero, come si legge nella perizia psichiatrica, in un rapporto esclusivo incontrollabile da parte di entrambi». Ancora oggi, al di là della vicenda giudiziaria, l' avvocato Melchionda è profondamente convinto della colpevolezza di Ciancabilla.
«Certo fu un processo indiziario, ma ricordo che oltre trenta magistrati hanno confermato le ragioni della condanna. Tre tentativi di revisione sono stati respinti. Anche per questo, davanti a questo alone di dubbio che continua invece ad avvolgere la morte di Francesca, lascio parlare questo diario, che è di una bellezza sconvolgente». Melchionda ha preparato anche un dvd, che sarà presentato insieme al libro "Francesca Alinovi. 47 coltellate", edito da Pendragon, sabato alla Scuderia in piazza Verdi (ore 17). Ci sono le immagini di repertorio, i pompieri che entrano dalla finestra, le sequenze crude del corpo insanguinato, fissate dai fotografi della Scientifica. E il ricordo degli occhi sgranati di Francesca, davanti a chi le infliggeva le pugnalate, quella al collo l' unica mortale.
Quel processo fu indimenticabile, dice oggi Melchionda, con una opinione pubblica e parte della stampa a suo modo affascinata anch' essa da Ciancabilla, e quindi innocentista.
Sfumature anche in aula, che Melchionda racconta adesso nel libro, tra i giudici popolari, ma che non gli fecero barcollare la fiducia di ottenere alla fine una sentenza di condanna. «Ricordo l' arringa finale, dissi a Ciancabilla, se lei è innocente di questo chiedo perdono a Dio. Ma lei ha lasciato sul corpo di Francesca un fiore finto, come finto era l' amore per lei». Era una rosa profumata di plastica, ritrovata dalla Polizia nel disordine della colluttazione dopo il delitto. Melchionda la conserva oggi in un cassetto del suo studio, e l' editore l' ha scelta per farne la copertina del libro. «Questo è un libro scritto con il cuore - dice alla fine - un omaggio, è quanto dovevo alla memoria di Francesca».
MDD hai scritto un articolo meraviglioso, originale e vicino alla verità.Come ti è venuta in mente l'idea del tetramorfo?
RispondiEliminaComplimenti di cuore.
Interessante e mai scontato, come sempre!
RispondiEliminaGrazie per queste tue analisi.
Annamaria
Ottimo MDD!!
RispondiEliminaMa quindi secondo te Bologna è stata scelta apposta proprio per quello che ha rappresentato negli anni precedenti?
M.G.
CIAO MG
RispondiEliminaSi, secondo me, Bologna con le sue stragi e delitti, era lo scenario perfetto per dare un esempio dall'alto... :-)
Bravo mdd, l'ho letto solo adesso. Pensa che sciocco, credevo che i delitti del DAMS fossero indirizzati a ECO, per 'Il nome della Rosa'. Io sono proprio un semplicione.
RispondiEliminaPo esse... Magari un avvertimento, magari ci sono più livelli, chissà... :-)
RispondiEliminastat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus ("la rosa, che era, [ora] esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi")
Era proprio ora che si desse più eco alla faccenda...
RispondiEliminama il Ciancabilla era omosessuale?
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