Le feste prendevano il nome dal dio Saturno, corrispondente del greco Crono e padre di Giove/Zeus, che si riteneva imperasse durante la mitica “età dell’oro”, quando sulla terra regnavano pace e abbondanza; per questo i suoi festeggiamenti, affinché fossero di buon auspicio, avvenivano durante la parte dell’anno in cui cadeva il solstizio d’inverno e in cui si attendeva – in un momento ‘buio’ come dicembre – la ‘rinascita’ della natura.
Non è un caso che queste celebrazioni facevano da preludio al “dies natalis Solis Invicti” (giorno di nascita del Sole Invincibile), che cadeva il 25 dicembre, e che in epoca cristiana coincideranno con l’Avvento. Tuttavia, i Saturnalia, più che ricordare il nostro Avvento, ricordano semmai il Carnevale, per il carattere di burla e di sovversione; difatti, durante le feste si allestivano grandi banchetti, con canti, danze e finanche orge, per ricordare l’opulenza dell’età dell’oro, inoltre era concesso agli schiavi di banchettare e di poter prendere in giro i padroni, secondo la logica del capovolgimento sociale. Perché tutto ciò?
Forse perché Tolerabile est semel anno insanire, frase attribuita a Seneca, meglio nota come Semel in anno licet insanire, ovvero “una volta all’anno è lecito essere folli”; questo per una sorta di funzione catartica attribuita alla ‘follia’, all’‘uscire fuori dagli schemi’, che favoriva una sorta di liberazione corale, che l’autorità costituita era consapevole di non poter reprimere per tutto l’anno e i Saturnali, dunque, fungevano da valvola di sfogo. Non è un caso che, anche quando la Chiesa vietò queste feste, nel corso del Medioevo ne nacquero altre simili, si pensi alla Festa dei Folli in Francia; chi di noi non ricorda la celebre scena in "Notre Dame de Paris" quando il gobbo Quasimodo viene incoronato re dei folli, proprio durante questi festeggiamenti? E non è un caso – a ribadire la discendenza dalla cultura latina – che anche durante i Saturnalia si eleggesse, spesso tra le persone appartenenti allo strato sociale più basso, un “princeps Saturnalicius” (principe dei Saturnali), cui si faceva indossare una veste rossa (colore che alludeva forse ad Ade, dio degli Inferi). Sebbene il cristianesimo abbia cercato in tutti i modi di reprimere questi antichi culti pagani, alla fine in una maniera o nell’altra questi tornavano alla luce, perché il desiderio di liberarsi dalle leggi per ritornare al caos primordiale è da sempre stato insito nell’uomo; così, benché in maniera molto più edulcorata, questa antica festa è stata spostata verso febbraio e oggi costituisce il Carnevale.
La Dodicesima Notte e "Befana"
La notte fra il cinque e il sei Gennaio è da sempre una notte di grande festa, durante la quale i fuochi e gli ultimi doni chiudono il ciclo delle feste solstiziali.
Già da tempi antichissimi la festività era indicata con il termine Epifania, derivato dal greco, epifaneia, che ha il significato di manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina, e dal verbo, epifaino, appaio. Già presso i Romani l’Epifania, intesa come manifestazione del divino, chiudeva i festeggiamenti per i Saturnalia, le festività in onore del Dio Saturno che sottolineavano il Solstizio d’inverno.
La Festa dei Fuochi
Le società rurali sono, per loro definizione, tradizionali e legate al passato.
Se nelle grandi città poco e nulla rimane dei riti saturnali e solstiziali in genere, i falò contadini sopravvivono ancora oggi come fulcro dei festeggiamenti invernali, specie nell’Italia Settentrionale e, in modo particolare in Veneto, Piemonte e Lombardia.
La notte del 5 Gennaio, le oscure pianure venete e friulane si accendono dei mille falò del Panevin, antico rito contadino arcaico legato, appunto, alle celebrazioni solstiziali pre-cristiane.
Il nome della festa è una parola che, scomposta, parla di pane e vino, cioè di sostentamento e, dunque, di benessere dichiarando il carattere augurante ma anche esorcizzante del rito.
Questa festa dei fuochi interessa le ’terre basse’ attraversate da fiumi storici come il Piave, il Livenza, il Tagliamento; e sulle colline venete e sui monti del vicino Friuli. Lungo questo tragitto, splendono falò costituiti da grandi, a volte gigantesche pire, fatte da sterpaglia, rimasugli delle potature, tralci di vite, fascine di rovi ecc.
In cima alla pira è sistemato un pupazzo grottesco, la Befana chiamata "Maràntega".
Tutta la festa è fortemente simbolica: il fantoccio della Maràntega rappresenta tutte le cose dalle quali liberarsi, come la miseria e le malattie, la carestia e la siccità ecc., che finiscono nel sacco del passato.
Così le faville rosse del falò e le volute del fumo caldo sono simbolo dell’avvenire gonfio di speranze e aspettative e così la tradizione vuole che questa sia una notte di presagi e di vaticini.
Un aruspice osserva e legge nelle faville danzanti nel vento o nelle gravide volute di fumo il futuro della comunità stretta intorno al falò, in attesa di sentire annunciare prosperità e benevolenza da parte della Madre Terra per l’anno che verrà e che si ridesterà in tutto il suo fulgore in primavera.
Una volta annunciato l’ultimo auspicio regina della festa sarà la ’pinsa’, un dolce casalingo, un tempo molto rustico ma evolutosi nei secoli.
A ogni falò potrete assaggiarlo in ben sette gusti come vuole la consolidata tradizione, nel solito sposalizio del dio e della dea primordiali, l’assaggio delle tonde pinse preparate dalle massaie è accompagnato dalla degustazione dei vini del contadino.
Una storia popolare vuole che a Santa Maria di Faletto, sotto una sfavillante pira, il poeta contadino Nino Mura, di origine solighese, declamasse rigorosamente in dialetto una profezia... del tutto inaspettatamente gli rispose il professor Trump, scozzese, ululando in gaelico.
Il Piemonte, la Brianza e l’Alto milanese sono anch’esse illuminate da fuochi simili, in onore di una vecchia strega: la Giubiana (il nome varia leggermente secondo il paese) durante la notte dell’ultimo giovedì di Gennaio.
Come la Maràntega, anche la Giubiana rappresenta la Madre Terra vecchia e stanca. Anche la pira della Giubbiana rappresenta il rogo di un passato carico di cose da dimenticare, bruciare e le faville che s’innalzano leggere nell’oscurità sono le speranze degli astanti portante in cielo dal fumo denso e gonfio del falò.
La Pira, in questo caso è formata da un enorme fantoccio di legno e paglia vestito di stracci. L’origine del nome Giubiana è sconosciuta poiché sono assenti fonti scritte, tuttavia, molti riconducono questa celebrazione al culto di Giove e Giunone, divinità tutelari della famiglia, rappresentanti il Cielo e la Terra.
Secondo la tradizione popolare la Giubiana è una strega, spesso magra e dalle gambe molto lunghe vestite da calze rosse. Vive nei boschi e, grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero.
Così osserva tutti quelli che entrano nel bosco e li fa spaventare, soprattutto i bambini. Ogni ultimo Giovedì di Gennaio va alla ricerca di qualche bambino da mangiare.
Ma una mamma, che voleva molto bene al suo bambino, le tese una trappola. Preparò una gran pentola piena di risotto giallo allo zafferano con la luganega (salsiccia), e lo mise sulla finestra. Il profumo era delizioso, da far venire l’acquolina in bocca. La Giubiana sentì il buon odore e corse con la sua scopa verso la pentola e cominciò a mangiare il risotto. Il risotto era tanto ma era così buono, che la Giubiana non si accorse che stava per arrivare il Sole. Il Sole nascente incenerì la strega che era una creatura dell’oscurità e così il bambino fu salvo.
Esiste anche un’altra versione, secondo la quale una mamma prese una bambola e la riempì di coltelli e forbici, poi la mise nel letto, al posto della figlia.
A mezzanotte la bimba spaventatissima, si strinse vicino alla mamma, mentre si sentiva la Giubiana salire i gradini ed entrare nella stanza dove giaceva la bambola che la madre aveva riempito di forbici e coltelli.
Nella sua ferocia, la Giubiana ingoiò in un sol boccone la bambola credendo che fosse la bambina, ma subito fu costretta a emettere un urlo raccapricciante. La mamma andò nella stanza della bimba e trovò il corpo della Giubiana in brandelli, per via dei coltelli e delle forbici. Con il sorgere del sole il corpo dell’orchessa fu bruciato.
In memoria di questa leggenda dopo il rogo viene servito il risotto della Giubiana con zafferano e salsiccia. Questo mito ricorda molto quello di Saturno, anche lui divoratore di fanciuli, ovvero dell'avvenire.
Infine, nel Mondo Cristiano, la festa dell’Epifania fu canonizzata nel III Secolo e commemora l’adorazione dei Magi presso il Bambinello.
Tale Adorazione simboleggia la Manifestazione della natura divina di Gesù Bambino, tuttavia, per la Chiesa Ortodossa, tredici giorni dopo Natale (secondo il calendario Giuliano) si commemora il battesimo di Gesù, altro importantissimo momento della manifestazione divina del Bambinello. Anche in questo caso l’Epifania sottolinea la morte del vecchio e la nascita del nuovo, là dove Gesù rappresenta non solo il Sole Invicto o la nascita della nuova religione cristiana ma, in un’ottica più universale e certo più evangelica (nell’accezione di Buona Novella) del nuovo Regno d’Amore che si sostituisce alle Tenebre del Regno della Paura e dell’Assenza di Dio.
La notte fra il cinque e il sei Gennaio è da sempre una notte di grande festa, durante la quale i fuochi e gli ultimi doni chiudono il ciclo delle feste solstiziali.
Già da tempi antichissimi la festività era indicata con il termine Epifania, derivato dal greco, epifaneia, che ha il significato di manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina, e dal verbo, epifaino, appaio. Già presso i Romani l’Epifania, intesa come manifestazione del divino, chiudeva i festeggiamenti per i Saturnalia, le festività in onore del Dio Saturno che sottolineavano il Solstizio d’inverno.
Meravigliosamente i simboli superano nella loro semplicità ed efficiente comunicabilità tutte quelle differenze che rendono l’ecumenismo un miraggio, e nella loro universalità annullano le differenze fra religioni e razze abbattendo confini e culture in un universo denso di significato ma privo di spazio e tempo.
E’ il caso del numero "dodici", infatti proprio nella dodicesima Notte dopo il "solstizio d’inverno", apice dei Saturnalia, il popolo romano festeggiava l’Epifania, ovvero la manifestazione divina, che chiudeva un ciclo di feste caratterizzate dal capovolgimento delle regole. A partire dal II secolo l’Epifania era festeggiata con un rito molto singolare durante il quale si organizzava un banchetto per gli animali domestici i quali sarebbero stati serviti dai propri padroni per impedire loro di acquisire il dono della parola.
Altri riti legati ai Saturnali hanno dato origine, nel giorno dell’Epifania, all’elezione di "Re Burla" come accadeva nella "Festa dei Pazzi" a Parigi, sul sagrato di Notre Dame.
Mentre a Roma e nelle grandi città dell’Impero si festeggiava l’Epifania Saturnaliium, nelle zone rurali i contadini accendevano i loro fuochi in onore della Dea Madre al ritmo lunare e non solare. Nella lettura volgare il termine "Epifania" si è trasformato in "Pifania" e da lì in "Befana".
Giunta alla fine del suo ciclo, la Madre Terra è, in questo periodo vecchia e decrepita, stanca e vuota dopo aver dato tutti i suoi frutti ed energie all’umanità.
Ella vuole solo riposare, lasciarsi incenerire dal fuoco nascente dopo il massimo dell’oscurità, ma prima lascia un suo ultimo dono in ogni casa, nei pressi del focolare, simbolo dell’Asse del Mondo nella società rurale.
Presto alla Madre Terra furono date le fattezze di una Vecchia che, a cavallo di una scopa fatta di rametti secchi, girava di casa in casa lasciando frutta e altre cibarie in dono, specie per i più piccini.
Nacquero così, in quei tempi lontani, riti ancora oggi vivi durante i quali fantocci di legno e paglia rappresentanti vecchie con la scopa erano bruciati in grandi falò attorno ai quali grandi e piccini danzavano.
In genere, la vecchia rappresentava, come detto, la Madre Terra incenerita dal Sole che sarebbe rinata in primavera dalle sue stesse ceneri. Questi falò erano una sorta di esorcismo contro le privazioni passate.
Un altro rito propiziatorio delle campagne era la questua alimentare, fatta di casa in casa dai bambini della comunità. La questua era accompagnata da canti e filastrocche allo scopo di scacciare le manifestazioni terribili della natura. Per coloro che dalla Terra traggono sostentamento, infatti, la Madre, ha una doppia natura: una benefica e una malefica.
Essa è una madre che nutre i suoi figli ma che, anche, li umilia, frustra e sconfigge con le carestie, i diluvi, le grandinate, le gelate, la siccità e via discorrendo.
Altri riti legati ai Saturnali hanno dato origine, nel giorno dell’Epifania, all’elezione di "Re Burla" come accadeva nella "Festa dei Pazzi" a Parigi, sul sagrato di Notre Dame.
Mentre a Roma e nelle grandi città dell’Impero si festeggiava l’Epifania Saturnaliium, nelle zone rurali i contadini accendevano i loro fuochi in onore della Dea Madre al ritmo lunare e non solare. Nella lettura volgare il termine "Epifania" si è trasformato in "Pifania" e da lì in "Befana".
Giunta alla fine del suo ciclo, la Madre Terra è, in questo periodo vecchia e decrepita, stanca e vuota dopo aver dato tutti i suoi frutti ed energie all’umanità.
Ella vuole solo riposare, lasciarsi incenerire dal fuoco nascente dopo il massimo dell’oscurità, ma prima lascia un suo ultimo dono in ogni casa, nei pressi del focolare, simbolo dell’Asse del Mondo nella società rurale.
Presto alla Madre Terra furono date le fattezze di una Vecchia che, a cavallo di una scopa fatta di rametti secchi, girava di casa in casa lasciando frutta e altre cibarie in dono, specie per i più piccini.
Nacquero così, in quei tempi lontani, riti ancora oggi vivi durante i quali fantocci di legno e paglia rappresentanti vecchie con la scopa erano bruciati in grandi falò attorno ai quali grandi e piccini danzavano.
In genere, la vecchia rappresentava, come detto, la Madre Terra incenerita dal Sole che sarebbe rinata in primavera dalle sue stesse ceneri. Questi falò erano una sorta di esorcismo contro le privazioni passate.
Un altro rito propiziatorio delle campagne era la questua alimentare, fatta di casa in casa dai bambini della comunità. La questua era accompagnata da canti e filastrocche allo scopo di scacciare le manifestazioni terribili della natura. Per coloro che dalla Terra traggono sostentamento, infatti, la Madre, ha una doppia natura: una benefica e una malefica.
Essa è una madre che nutre i suoi figli ma che, anche, li umilia, frustra e sconfigge con le carestie, i diluvi, le grandinate, le gelate, la siccità e via discorrendo.
La Festa dei Fuochi
Le società rurali sono, per loro definizione, tradizionali e legate al passato.
Se nelle grandi città poco e nulla rimane dei riti saturnali e solstiziali in genere, i falò contadini sopravvivono ancora oggi come fulcro dei festeggiamenti invernali, specie nell’Italia Settentrionale e, in modo particolare in Veneto, Piemonte e Lombardia.
La notte del 5 Gennaio, le oscure pianure venete e friulane si accendono dei mille falò del Panevin, antico rito contadino arcaico legato, appunto, alle celebrazioni solstiziali pre-cristiane.
Il nome della festa è una parola che, scomposta, parla di pane e vino, cioè di sostentamento e, dunque, di benessere dichiarando il carattere augurante ma anche esorcizzante del rito.
Questa festa dei fuochi interessa le ’terre basse’ attraversate da fiumi storici come il Piave, il Livenza, il Tagliamento; e sulle colline venete e sui monti del vicino Friuli. Lungo questo tragitto, splendono falò costituiti da grandi, a volte gigantesche pire, fatte da sterpaglia, rimasugli delle potature, tralci di vite, fascine di rovi ecc.
In cima alla pira è sistemato un pupazzo grottesco, la Befana chiamata "Maràntega".
Tutta la festa è fortemente simbolica: il fantoccio della Maràntega rappresenta tutte le cose dalle quali liberarsi, come la miseria e le malattie, la carestia e la siccità ecc., che finiscono nel sacco del passato.
Così le faville rosse del falò e le volute del fumo caldo sono simbolo dell’avvenire gonfio di speranze e aspettative e così la tradizione vuole che questa sia una notte di presagi e di vaticini.
Un aruspice osserva e legge nelle faville danzanti nel vento o nelle gravide volute di fumo il futuro della comunità stretta intorno al falò, in attesa di sentire annunciare prosperità e benevolenza da parte della Madre Terra per l’anno che verrà e che si ridesterà in tutto il suo fulgore in primavera.
Una volta annunciato l’ultimo auspicio regina della festa sarà la ’pinsa’, un dolce casalingo, un tempo molto rustico ma evolutosi nei secoli.
A ogni falò potrete assaggiarlo in ben sette gusti come vuole la consolidata tradizione, nel solito sposalizio del dio e della dea primordiali, l’assaggio delle tonde pinse preparate dalle massaie è accompagnato dalla degustazione dei vini del contadino.
Una storia popolare vuole che a Santa Maria di Faletto, sotto una sfavillante pira, il poeta contadino Nino Mura, di origine solighese, declamasse rigorosamente in dialetto una profezia... del tutto inaspettatamente gli rispose il professor Trump, scozzese, ululando in gaelico.
Il Piemonte, la Brianza e l’Alto milanese sono anch’esse illuminate da fuochi simili, in onore di una vecchia strega: la Giubiana (il nome varia leggermente secondo il paese) durante la notte dell’ultimo giovedì di Gennaio.
Come la Maràntega, anche la Giubiana rappresenta la Madre Terra vecchia e stanca. Anche la pira della Giubbiana rappresenta il rogo di un passato carico di cose da dimenticare, bruciare e le faville che s’innalzano leggere nell’oscurità sono le speranze degli astanti portante in cielo dal fumo denso e gonfio del falò.
La Pira, in questo caso è formata da un enorme fantoccio di legno e paglia vestito di stracci. L’origine del nome Giubiana è sconosciuta poiché sono assenti fonti scritte, tuttavia, molti riconducono questa celebrazione al culto di Giove e Giunone, divinità tutelari della famiglia, rappresentanti il Cielo e la Terra.
Secondo la tradizione popolare la Giubiana è una strega, spesso magra e dalle gambe molto lunghe vestite da calze rosse. Vive nei boschi e, grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero.
Così osserva tutti quelli che entrano nel bosco e li fa spaventare, soprattutto i bambini. Ogni ultimo Giovedì di Gennaio va alla ricerca di qualche bambino da mangiare.
Ma una mamma, che voleva molto bene al suo bambino, le tese una trappola. Preparò una gran pentola piena di risotto giallo allo zafferano con la luganega (salsiccia), e lo mise sulla finestra. Il profumo era delizioso, da far venire l’acquolina in bocca. La Giubiana sentì il buon odore e corse con la sua scopa verso la pentola e cominciò a mangiare il risotto. Il risotto era tanto ma era così buono, che la Giubiana non si accorse che stava per arrivare il Sole. Il Sole nascente incenerì la strega che era una creatura dell’oscurità e così il bambino fu salvo.
Esiste anche un’altra versione, secondo la quale una mamma prese una bambola e la riempì di coltelli e forbici, poi la mise nel letto, al posto della figlia.
A mezzanotte la bimba spaventatissima, si strinse vicino alla mamma, mentre si sentiva la Giubiana salire i gradini ed entrare nella stanza dove giaceva la bambola che la madre aveva riempito di forbici e coltelli.
Nella sua ferocia, la Giubiana ingoiò in un sol boccone la bambola credendo che fosse la bambina, ma subito fu costretta a emettere un urlo raccapricciante. La mamma andò nella stanza della bimba e trovò il corpo della Giubiana in brandelli, per via dei coltelli e delle forbici. Con il sorgere del sole il corpo dell’orchessa fu bruciato.
In memoria di questa leggenda dopo il rogo viene servito il risotto della Giubiana con zafferano e salsiccia. Questo mito ricorda molto quello di Saturno, anche lui divoratore di fanciuli, ovvero dell'avvenire.
Infine, nel Mondo Cristiano, la festa dell’Epifania fu canonizzata nel III Secolo e commemora l’adorazione dei Magi presso il Bambinello.
Tale Adorazione simboleggia la Manifestazione della natura divina di Gesù Bambino, tuttavia, per la Chiesa Ortodossa, tredici giorni dopo Natale (secondo il calendario Giuliano) si commemora il battesimo di Gesù, altro importantissimo momento della manifestazione divina del Bambinello. Anche in questo caso l’Epifania sottolinea la morte del vecchio e la nascita del nuovo, là dove Gesù rappresenta non solo il Sole Invicto o la nascita della nuova religione cristiana ma, in un’ottica più universale e certo più evangelica (nell’accezione di Buona Novella) del nuovo Regno d’Amore che si sostituisce alle Tenebre del Regno della Paura e dell’Assenza di Dio.
Infatti, l’Epifania, a tutte le latitudini e in tutte le epoche è il simbolo della conoscenza da parte dell’Uomo di Dio e dunque dell’inizio, per l’Umanità, di un momento di speranza e splendore; l’inizio di un viaggio verso l’origine o età dell’Oro che dir si voglia sotto la guida amorevole della divinità.
Chiunque sia la vostra Befana, da qualunque paese vengano i vostri Magi, in qualunque modo vorrete salutare la Madre Terra, possa manifestarsi nei vostri cuori quella certezza del divino che, nella notte dei tempi, portó i nostri sconosciuti antenati a festeggiare tanto allegramente.
Chiunque sia la vostra Befana, da qualunque paese vengano i vostri Magi, in qualunque modo vorrete salutare la Madre Terra, possa manifestarsi nei vostri cuori quella certezza del divino che, nella notte dei tempi, portó i nostri sconosciuti antenati a festeggiare tanto allegramente.
https://www.ilmattinodifoggia.it/blog/alba-subrizio/34677/i-saturnalia-l-avvento-dei-romani.html?refresh_ce
Ogni "festa" è in sostanza una concessione che il padrone fa agli schiavi. Una valvola di sfogo per aumentare la produttività. Un premio di produzione.
RispondiEliminaTali riti di sovvertimento dei ruoli (per un giorno anche il servo poteva prendere in giro il padrone) illudevano il popolo bue di possedere una qualche forma di libertà.
Come il brufolo che spunta per espellere un po' di pus.
Tutti i riti, pagani o religiosi, hanno la funzione di dare un po' la carica agli schiavi stremati dal lavoro.
Mentre il re gozzoviglia tutti i giorni.
Forse un giorno anche tu potrai diventare come me.
Le festa per non perdere la speranza.
Lo zuccherino che si dà al cane quando esegue bene l'ordine.
Alla fine nessuno schiavo è mai diventato re.
Alla fine Dio non è mai uscito in TV.