Luciano Parinetto
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PRESENTAZIONE :
Abbiamo voluto pubblicare questo saggio di Luciano Parinetto (1934-2001), comparso nel volume Né dio né capitale, comparso nel 1976, per Moizzi Editore, perché ci è sembrato un approccio stimolante alla lettura di Marx stesso, slegata dai dogmi e dai tatticismi politici, che hanno imbalsamato Marx facendolo di fatto morire. L’approccio di Parinetto a Marx, con la relazione tra il feticismo religioso e quello della merce, oltre ad avere un valore teorico in se, è anche un modo diverso di leggere il meccanismo del capitale.
Il Capitale di Marx, viene qui riportato nella sua dimensione più pura, non come opera economica, ma una critica della scienza economica, infatti il livello economico viene immediatamente situato in un insieme più vasto. Pensiamo a questo saggio e all’utilizzo che si può fare di Marx oggi, la vendetta di un mortovivente, un moderno zombi, che proprio perché considerato ormai morto e sepolto, ha la forza di riapparire in superficie, in un mondo capitalista contrassegnato da una sempre più crescente disumanizzazione.
Dove in una società di vivi-morti saranno i morti-viventi a provocarne il trapassamento.
La de-integrazione che contraddistingue l’attuale fase aumenta i morti-viventi: l’estensione della condizione proletaria in un capitalismo contrassegnato da processi di decadenza .
Questa condizione di esclusione sociale quantitativa, di morte apparente, che spesso inquieta politici, sindacalisti, sociologi, economisti, ecc.. è per noi la strada per la vita, perché è proprio la condizione di zombi, del proletariato attuale, che rende possibile il suo piano di rottura con l’economia politica stessa. La storia del capitalismo è la storia della progressiva e crescente disumanizzazione delle relazioni sociali, della produzione e della vita sociale in generale.
In tutti i sistemi sociali precedenti, la ricchezza aveva imbrigliato il lavoro in modo concreto attraverso relazioni sociali chiaramente identificabili come quelle tra padrone e schiavo, tra signore e servo, tra oppressore e oppresso. Schiavitù e servitù della gleba erano sanzionate dagli dei o da dio, e non potevano essere messe in discussione. Per giustificare la schiavitù, gli schiavi furono considerati animali, ma i loro padroni sapevano che cosa facevano quando li mettevano al lavoro.
Il signore feudale e il servo conoscevano la loro posizione all’interno della società, anche se il servo poteva talvolta dubitare della saggezza di tali ordinamenti.
Tuttavia la schiavitù e il lavoro costrittivo erano attività umane, motivo di sofferenza per una classe e di gioia per l’altra, assunte da entrambe per ciò che veramente erano.
Il feticcio della religione serviva a cementificare tale situazione.
Non va visto comunque come epoca dorata un simile sistema, l’amore verso l’epoca antica, come quella precristiana legata alla Grecia antica, nel mito democratico assoluto, dimentica sempre che era una società schiavistica, dove la comunità di una parte, la polis greca si fondava su una rigida ripartizione sociale, la sola che permetteva il muoversi della società stessa.
La comunità dei liberi greci, identificava, i propri interessi con la necessità della intera società, cosi come la borghesia al suo nascere faceva coincidere le modalità della “natura umana” che si riscontrano in condizioni capitaliste con quelle della natura umana in generale.
Ma ciò che sono gli uomini, e la loro comunità, in un determinato periodo storico dipende dal che cosa e dal come producono. Il loro essere “dipende dalle condizioni materiali che determinano la loro produzione. Questa produzione fa la sua comparsa solo quando si verifica l’esplosione demografica. A sua volta essa presuppone il rapporto reciproco tra gli individui.
La forma di questo rapporto è di nuovo determinata dalla produzione” K.Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca. Ampliando la produzione di oggetti e i loro rapporti materiali, gli uomini “modificano nel corso di questo processo, la loro esistenza reale, il loro pensiero e i prodotti stessi del loro pensiero” K.Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca. La natura umana non può essere descritta partendo dall’individuo isolato poiché essa deriva da un insieme di relazioni sociali.
L’uomo è ciò che realmente fa nel concreto ambiente storico e sociale. Mutando questo ambiente cambia se stesso, la storia può essere dunque vista come la continua trasformazione della natura umana. Il termine società equivale a relazioni tra individui, non all’individuo singolo.
Il processo di astrazione dell’uomo e della sua disumanizzazione avviene con la divisione sociale del lavoro, che fin dalle origini si tradusse in una differenziazione delle condizioni lavorative, cioè degli utensili e dei materiali impiegati, in una spartizione del capitale accumulato tra i vari proprietari, e quindi anche, in una divisione tra capitale e lavoro, e nelle differenti forme di proprietà.
Con l’aumento della produzione sociale si estese lo scambio e crebbe l’uso del denaro.
Considerato all’inizio un semplice mezzo di scambio atto a incoraggiare la produzione sociale, (cosi come il rapporto tra l’uomo e gli dei), il denaro, insieme allo scambio che esso facilitava, acquistò ben presto una dimensione apparentemente autonoma. Le fortune dei singoli produttori vennero a dipendere dalle relazioni di mercato, poiché solo per mezzo dello scambio le realtà sociali potevano affermare se stesse e controllare così i produttori invece di esserne controllate.
La produzione capitalista è la produzione di un lavoro non pagato come capitale –esprimibile in termini monetari. Lo scambio tra lavoro e capitale lascia un pluslavoro, materializzato in beni, nelle mani dei capitalisti. Questo pluslavoro deve essere realizzato al di fuori dello scambio lavorocapitale, e lo è di fatto attraverso il consumo della popolazione non produttiva e la formazione di capitale. L’aumento della produttività lavorativa svaluta il capitale esistente e riduce l’ammontare del pluslavoro estraibile attraverso un dato capitale, il che costringe i capitalisti ad accrescere costantemente il loro capitale. Questo si traduce quindi in una concorrenza capitalista che implica un costante aumento di capitale. Il controllo dei produttori da parte del mercato è simultaneamente il controllo dei produttori e del mercato da parte della costrizione all’accumulazione capitalista.
La condotta nell’ambito del capitalismo è subordinata al processo di espansione del capitale.
Questo processo è la conseguenza diretta dello sviluppo delle forze sociali di produzione nel quadro delle relazioni della proprietà privata, che, a loro, volta, sono determinate dalla struttura di classe della società e dal suo meccanismo di sfruttamento. L’espansione della produzione coincide allora in pratica con l’auto-espansione del capitale, poiché nessun capitalista può fare a meno di dedicarsi con devozione ad accrescere il suo capitale. Inoltre, solo nella misura in cui il capitale aumenta in quanto capitale, si può far avanzare la produzione materiale; la soddisfazione delle necessità umane dipende dalla formazione del capitale. Invece di usare i mezzi di produzione per soddisfare questa necessità, questi mezzi in quanto capitale determinano le condizioni dell’esistenza sociale sia per i proletari sia per i capitalisti. Le molteplici manifestazioni di alienazione di cui soffre l’uomo moderno, sono il prodotto del feticismo della produzione capitalista, che si presenta a livello di mercato come il feticismo del’oggetto, dove dio diventa il denaro.
Poiché la produzione capitalista deve essere realizzata attraverso il processo di circolazione, la spinta verso un capitale più allargato in termini di valore monetario unita al più totale disprezzo per gli effettivi bisogni sociali in termini di valori umani, trasforma tutte le relazioni sociali in relazioni economiche, vale a dire, le relazioni umane possono essere consumate solo per il tramite delle relazioni economiche ed hanno effettivamente, o assumano, la qualità di merce.
Ogni cosa è destinata alla vendita e tutto può essere comprato. La coazione sociale all’accumulazione capitalista induce gli individui a riporre la propria fiducia più nel denaro che negli uomini.
E poiché solo il possesso del denaro rende possibile i rapporti sociali, i rapporti sociali diventano a loro volta solo un mezzo per far soldi. Ogni uomo fa dell’altro un mezzo per assicurare e provare la propria posizione economica, indipendentemente da quali possono essere i suoi interessi in termini extraeconomici. Anche se ques’uomo è un essere sociale, egli lo è solo al di fuori della società.
Egli può considerare gradevole e giustificabile il suo comportamento asociale, ma, in realtà non ha nessun controllo su di esso e rimane vittima indifesa delle circostanze.
Nel capitalismo avviene quel processo in cui l’individuo libero considera reale unicamente se stesso, gli altri sono per lui delle astrazioni che possono essere usate o manipolate.
Il nuovo dio, il denaro, allarga e non diminuisce la dimensione democratica, allargandola a tutta la polis, ma al tempo stesso disumanizzando ancor più l’uomo. L’attuale mondo capitalistico è incapace di trasformarsi in una nuova società cosi come ad un certo stadio lo fu il feudalesimo, dove inizio una lotta tra la borghesia nascente e le vecchie classi sociali dominanti. Oggi il capitalismo è ancora in grado di neutralizzare o soggiogare le forze sociali (il proletariato) che potrebbero provocarne una trasformazione, ma è comunque incamminato verso la sua distruzione.
L’eliminazione del lavoro umano che accompagna lo sviluppo del capitalismo non cancella il proletariato numericamente, anzi lo fa aumentare, ne ha la forza di cancellare le sue passioni e la sua capacità trasformativa, derivante dalla sua natura, l’essere nella sua dimensione rivoluzionaria – intesa come rottura radicale nella lotta di classe in cui si distrugge la relazione tra capitale e lavoratori e perciò la stessa economia politica- la più importante forza produttiva.
In questo senso non conta cosa quel proletario pensa o si propone, ma ciò che è la sua natura e ciò che è costretto storicamente a fare in conformità del suo essere.
La classe abbiente e il proletariato presentano la medesima auto-alienazione umana, ma mentre i primi vi si sentono a proprio agio, anzi tale alienazione rappresenta la sua propria potenza e le da la parvenza di un’esistenza umana, la seconda classe, il proletariato, nell’alienazione, si sente annientata, ravvisa in essa la sua impotenza e la realtà di un’esistenza inumana.
Il maggior sviluppo di capitale provoca al tempo stesso quel meccanismo di de-integrazione sociale, ampliando sempre più quel processo di disumanizzazione dell’uomo, rendendo tuttavia possibile il suo trapasso. Ma questo non avverrà per meccanismi automatici, ma dentro una lotta titanica tra forze sociali contrapposte, tra la passione di una nuova comunità e l’attuale civiltà, dove saranno proprio i morti-viventi a rappresentare la forza sociale della trasformazione.
Perché in questi morti-viventi, i proletari, è compiuta praticamente l’astrazione da ogni umanità, perfino della parvenza dell’umanità; perché le condizioni di vita del proletariato riassumono tutte le condizioni di vita della società moderna nella loro asprezza più inumana; perché nel proletariato l’uomo ha perduto se stesso, ma nello stesso tempo è costretto dal bisogno non più sopprimibile, non più eludibile, dalla manifestazione pratica della necessità, alla rivolta contro questa inumanità, ecco perché questi zombi possono liberare se stessi.
Alcuni compagni/e di Connessioni per la lotta di classe Primavera 2012.
La religione nel “ Capitale”
Quando il vecchio Darwin – ormai agnostico, ma pur sempre sottomesso al divino, personificato dalla fanatica intolleranza religiosa della moglie Emma- ricusò l’offerta, che Marx gli proponeva, delle dedica di una parte del Capitale, ravvisando nel libro un attacco contro la cristianità e rifiutando il proprio appoggio ad attacchi diretti contro la religione1, implicitamente riconosceva –non a torto- l’importanza (sia pur velata) che l’argomento della religione ha nel capolavoro marxiano.
Si tratta di un aspetto del Capitale, cui, finora, non pare sia stato dato il meritato rilievo e che perciò vale la pena di prendere – e sia pure sinteticamente- in considerazione.
Il Capitale –come sa chiunque l’abbia letto- non è un opera economica. O –perlomeno- è soprattutto una critica di quell’economia borghese, che intende il termine -economia economicisticamente, laddove, marxianamente, esso deve essere inteso come struttura socio-economico-lavorativa cui, in ultima istanza, vanno dialetticamente ricondotte tutte le sovrastrutture di una società storicamente specifica come quella caratterizzata dal capitalismo industriale.
Se è così, un esame critica del mondo economico è il fondamento stesso di una critica della totalità di una società, e in quella totalità trova ovviamente posto anche la religione.
Il rifiuto di Darwin potrebbe far ritenere che nel Capitale vi sia una ironizzazione volteriana della religione. Ma non è così, anche se, in esso, non mancano, a questo proposito, espressioni corrosivamente dissacranti. Se la considerazione della religione, nel Capitale, si limitasse ad esse, sarebbe cosa del tutto secondaria e dalla quale la struttura dell’opera potrebbe prescindere senza alcun danno. Ma non è affatto così. L’atteggiamento di Marx era – a questo riguardo- tutt’altro che illuministico. Egli era ben lungi, infatti, dal pensare di poter ridurre i contenuti dell’economia (e quindi anche della religione) a “Prodotto arbitrario della riflessione dell’uomo”, poiché sapeva bene che “questa era una maniera prediletta dell’illuminismo del XVIII secolo per togliere, per lo meno provvisoriamente, la parvenza della stranezza a quelle enigmatiche forme di rapporti umani il processo genetico delle quali non s’era ancora in grado di decifrare” Per quanto riguarda il processo genetico della religione, le opere del giovane Marx forniscono una prova lampante di come un simile argomento stesse a cuore al loro autore. E nello stesso Capitale si può leggere, del resto, che “è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose, che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Ques’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi scientifico”.
Ma non è l’applicazione di questo –del tutto anti-feuerbachiano (nonostante la dizione) metodo genetico che costituisce il fulcro della valutazione religiosa del Capitale. In esso si può invece rinvenire la sistematica applicazione metodologica del principio marxiano (esposto nel 1844 ne Gli annali franco-tedeschi) secondo il quale la critica della religione p il presupposto di ogni critica.
Da questo punto di vista, fra il Marx giovane (che smaschera le categorie dell’economia capitalista mediante il confronto demistificante di esse con le categorie dell’alienazione religiosa) e il Marx del Capitale non v’è che da registrare una perfetta omogeneità di vedute, nonostante che il Capitale rappresenti il documento più brillante dell’indiscutibile maturazione marxiana in sede di analisi economica. Tanto più rilevante appare dunque, in esso, il persistere del confronto demistificante fra forme di ideologia religiosa e forme di ideologia economica.
Evidentemente anche per il Marx maturo è essenziale mostrare come lo specchio della alienazione religiosa riveli l’alienazione socio-economica di cui è l’occultante riflesso e costituisca un momento essenziale della sua denuncia e conseguentemente della possibilità stessa del suo toglimento.
Religione ed economia
La religione non è solo oppio del popolo, non è posto in discussione da Marx solamente e semplicemente il suo contenuto (che per essere storicamente specifico è anche storicamente transeunte e dunque potrebbe mutare di epoca in epoca); è la forma stessa della religione che, presentandosi come occultante capovolgimento del reale deve, secondo Marx, essere denunciata e tolta. Tuttavia la denuncia di quel capovolgimento non è fine a se stessa. Marx sa benissimo che, anche agli occhi della chiesa, “oggi perfino l’ateismo è culpa levis, in confronto alla critica dei rapporti tradizionali di proprietà”.
Come diceva ancora il Marx degli Annali franco tedeschi, la battaglia contro la religione è solo una lotta indiretta che deve necessariamente introdurre –per essere efficace- alla lotta concreta e diretta contro quel mondo di cui la religione non è che la secondaria quintessenza spirituale.
E’ proprio per questo che nel Capitale (ma anche in opere precedenti) la denuncia del capovolgimento religioso è di essenziale importanza ai fini dell’individuazione ( e quindi della denuncia) di ogni altra forma di capovolgimento, quello socio-economico in primo piano.
Di qui l’importanza che riceve – in questo testo- la demistificazione della religione intesa quasi come addestramento alla ricerca di ogni altra mistificazione che ad essa sia analoga.
Perché Marx ritenga tanto decisivo il confronto fra religione ed economia diventa evidente qualora si consideri che – nel Capitale – la mistica struttura del capitalismo industriale – il mondo delle merci – si presenta essa stessa con le stigmate del’alienazione religiosa.
E’ indubbio che – proprio religiosamente – infatti, “durante il processo della produzione” si verifica “l’inversione di soggetto e oggetto”. Qui si possono vedere “tutte le forze produttive soggettive del lavoro presentarsi come forze produttive del capitale. Da una parte il valore, il lavoro passato, che domina il lavoro vivente, viene personificato nel capitalista; dall’altra parte, all’inverso, l’operaio appare come forza-lavoro puramente oggettiva, come merce.
Da tale rovesciamento di rapporti necessariamente deriva già nella semplice fase della produzione stessa il corrispondente rovesciamento di concezioni, una trasposizione di coscienza, che viene ulteriormente sviluppata dalle trasformazioni e modificazioni del vero e proprio processo di circolazione.” Quest’inversione –essenzialmente religiosa, almeno sul piano sovrastrutturale – si verifica dunque a diversi livelli anche sul piano della struttura.
E, infatti, “il modo in cui, mediante il passaggio attraverso il saggio del profitto, il plusvalore è trasformato nella forma del profitto”, non è –per fare un solo esempio- che “uno sviluppo ulteriore dell’inversione di soggetto e oggetto che già si verifica durante il processo della produzione”.
Marx insiste sull’essenzialità della categoria dell’inversione soggetto-oggetto ai fini della comprensione della mistificazione fondamentale della società capitalista e scrive, tra l’altro, che ciò che imprime ai mezzi di produzione “come un suggello un carattere di capitale non è né la natura di denaro del primo, né la specifica natura, il valore d’uso materiale” delle merci “come mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, ma il fatto che quel denaro e quelle merci, si ergano di fronte alla forza-lavoro spogliata di qualunque ricchezza materiale come potenze autonome impersonate dai loro proprietari; il fatto che le condizioni materiali necessarie alla realizzazione del lavoro sono estraniate all’operaio, anzi gli appaiono come feticci dotati di volontà e d’anima proprie; il fatto che le merci figurino come acquirenti di persone”.
Come nel mondo religioso –mediate quel rovesciamento soggetto-predicato che il giovane Marx- del tutto autonomamente rispetto a Feuerbach – aveva tanto efficacemente illustrato e che non è qui il momento di riassumere – “I prodotti del cervello umano appaiono figure indipendenti, dotate di vita propria in rapporto con gli uomini”, così, “nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci”.
Ovvero –come si dice in un'altra parte dello stesso libro del Capitale – “come l’uomo è dominato nella religione dall’opera della propria testa, così nella produzione capitalista egli è dominato dall’opera della propria mano”. Questo avviene perché – in regime di capitalismo industriale – la merce è eminentemente un oggetto religioso o – come si esprime Marx – “una cosa sensibilmente sovrasensibile”, sicchè, “per trovare un’analogia” che illumini “l’arcano della forma merce” “dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso”.
Ecco perché si sosteneva la centralità che la critica della religione ha anche nel capolavoro marxiano: intendere l’arcano dell’alienazione religiosa è infatti propedeutico per intendere l’arcano della forma merce. Chi è addestrato alle sottili mistificazioni della religione, è in grado di cogliere anche quelle del capitale e di guardarsene. Non è buon critico del capitale chi non è buon critico della religione. L’analogia fra feticismo delle merci e religione diventa ancor più calzante qualora si rilevi che anche l’oggetto religioso ha un’apparenza di indipendenza rispetto al suo produttore umano proprio come le merci l’hanno rispetto ai lavoratori.
“Tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci” si spiegano se si pone mente al fatto che il lato sensibile di una merce, il suo aspetto cosale, non è che quella di essere cristallizzazione di lavoro umano sociale, il quale in essa si ritrova appunto allo stato di un’”oggettività spettrale”.
Sotto aspetto di cosa viene dunque celato un rapporto sociale determinato.
La realtà si presenta in questo modo capovolta, “a testa in giù” ed è questo appunto il tipico della forma della coscienza religiosa. Di qui la “sottigliezza metafisica” ed i “capricci teologici” della merce, i cui misteri sono dunque molto più complessi di quelli dello spiritismo.
Come scrive Marx, nel VI capitolo inedito del I libro del Capitale, “sul piano della produzione materiale, del reale processo sociale di vita – poiché non altro che questo è il processo di produzione-, v’è qui lo stesso rapporto che sul piano ideologico si manifesta nella religione; inversione del soggetto nell’oggetto e viceversa” . Ovviamente nella religione tale inversione avviene “nella rappresentazione”, mentre nel mondo delle merci è “nella realtà” che l’aspetto sociale del lavoro, cosificato, si “erge di fronte all’operaio come elemento non soltanto estraneo ma ostile ed antagonista, apparendo oggettivato e personificato nel capitale”.
Se la merce gode di attributi teologali, se è un feticcio (e non dell’uomo con se stesso nella forma estraniata della mediazione attraverso la divinità cosale) che si leva di contro all’uomo come un idolo minaccioso, dietro ad esso si erge, ancor più onnipotente, il dio capitale.
Teologia del capitale La sostanziale religiosità del capitale emerge dai predicati teologici coi quali Marx lo qualifica, al tempo stesso demistificandolo. Snoccioliamone la lunga litania.
Se consideriamo, all’interno dell’”alambicco alchimistico della circolazione” il capitale come plusvalore, esso risulta –né più né meno il dio nei confronti del mondo- invisibile.
Come il dio biblico, il capitale è “un essere terribilmente misterioso”.
Innumerevoli volte i tre libri del Capitale lo definiscono come volontà e potenza estranee rispetto all’uomo, il rapporto con le quali si svolge, del resto come il rapporto del dio ebraico col suo gregge: “Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale”. Ma il capitale è imparentato anche con altre divinità orientali.
Marx lo paragona alla micidiale ruota del carro indiano di Visnù che stritolava i fedeli durante le processioni;e anche a Moloch, cui venivano sacrificati i bambini, nella pretesa che “secondo le sue leggi innate gli appartiene tutto il plusvalore che il genere umano potrà ancora produrre”.
Come capitale produttivo d’interesse esso raggiunge poi la sua più indipendente ed estraniata forma divina, poiché si presenta come “feticcio automatico” che – proprio come la divinità emana il divino (lumen de lumine) – è valore che genera valore. Ma la divinità-capitale, fedele alo suo carattere di feticcio, presenta predicati anche più arcaici, di un ente quasi regredito dal culto religioso al culto magico. Viene infatti – e non una sola volta- definito come “mostro animato.
Si tratta qui di un’operazione quasi negromantica compita dal capitalista – il sacerdote e servo del capitale- il quale “trasformando denaro in merci che servono come fattori del processo lavorativo, incorporando forza lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore autovalorizzantesi; nostro animato che comincia a lavorare come se avesse amore in corpo”. All’interno di questa resurrezione del mortuum, come l’antico Osiride, il capitale si presenta come il morto che comanda al vivo, che ne è schiavo.
Infatti “nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente dagli operai –meccanismo vivente- e gli operai gli sono incorporati come appendici umane”.
“La mort saisit le vif”!. Il mostro animato che ha il suo regno dove sono “i cadaveri delle macchine” e dove lentamente, “ogni uomo va morendo di ventiquattrore ore al giorno”, poiché il suo valore trapassa inesorabilmente nel processo lavorativo, assume infine anche la sanguinosa maschere del vampiro. “Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive più ne succhia”. E all’origine della sua epifania nella storia questo vampiro prediligeva i fanciulli e questo spiega il mistero della “trasformazione del sangue dell’infanzia in capitale”. Ma è tempo di tornare dalla magia e dalla negromanzia alla religione, anzi alla religione per eccellenza, ai predicati cristiani del capitale.
A questo proposito occorre notare che, per Marx, il cristianesimo è la religione specifica del capitale. “Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l’uno all’altro, in questa forma di cose, come eguale lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, e in particolare nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc.., è la forma di religione più corrispondente”.
Al lavoratore astratto del capitalismo industriale ben si accoppia, dunque, l’uomo astratto del cristianesimo; così come ben si accoppia la cristiana nozione atomistica di anima alla robinsonata del culto borghese per l’alienazione dell’individuo nell’individualismo.