martedì 22 febbraio 2022

RIGHI ZONA FUCSIA



In questo periodo storico vige un'ipocrisia deprimente. Prendiamo la storia dell'alunna che ha postato su Tik Tok l'ombelico in classe, diventando subito un caso mediatico, occupando spazi e talkshow che, onestamente, non meritava. La sua insegnante l'ha ripresa malamente, con frasi offensive e fuori luogo, dicendo che così vestita poteva andare sulla Salaria. Sicuramente la professoressa ha sbagliato, siamo tutti d'accordo sia stato compiuto un grave abuso, a patto che non diventi la scusa per un linciaggio mediatico, anche quello fuori luogo e, forse, ancor più grave della vicenda strumentalizzata ad arte. 
È stato detto che i tempi cambiano, che bisogna essere moderni, che oggi bisogna esprimere la propria individualità come e quando ci pare, ed io sono pure contento di questo, a patto poi di prenderci le nostre responsabilità. 
Le regole esistono per essere trasgredite, però basta con i piagnistei di un ribellismo mammone tramite il deus ex machina dei social, dove ancora una volta il grande demiurgo digitale vince su tutto e tutti, stabilendo i ruoli in campo. Ne deriva così il sillogismo: Scuola pubblica cattiva, insegnanti retrogradi vs ragazzini ribelli da applaudire e ringraziare per aver svecchiato i costumi. Riportiamo un po' di buon senso alla discussione, comprendendo che queste notizie sono strumentali per colpire la già tanto vituperata Scuola Pubblica, attraverso un medium tecnologico che la supera e la surclassa, umiliandola. Nessuna parola sull'insegnante menato per una nota, per tutti quei bravi professori che fanno i miracoli con masnade di coatti violenti ed aggressivi. Altro che rivoluzione, altro che striscioni, sarebbe stato bello vederli in piazza, anche quando alcuni compagni non vaccinati sono stati esclusi e lasciati a casa.

La società del politicamente corretto si mostra sempre più moralista di certi docenti tradizionalisti, pretenderebbe maestri docili e sottomessi, salvo poi permettere e benedire, in nome del progresso (regresso), l'identificazione in modelli forti e negativi, dove vince il più bullo, dove vige un eterno presente liberaleggiante e peloso, senza mai doversi misurare realmente con la responsabilità delle proprie azioni, anche nel sacrosanto conflitto con gli adulti. La persistente denigrazione dei professori, esautorati di ogni ruolo ed autorevolezza, che devono tenere conto dei deliri di genitori ansiogeni e spesso patogeni, va di pari passo con la destrutturazione del res publica in ogni sua declinazione sociale e culturale. Troppo facile sparare sulla Crocerossa, tagliare il welfare, disinvestire nell'istruzione, e poi pretendere ci siano eroi come ne "L'attimo Fuggente", salvo poi piangerne i martiri, come è successo nella sanità, dopo decenni di tagli vergognosi.

Soprattutto, basta strumentalizzare casi mediatici di questo infimo livello e portarli come esempio di una critica vemente modernista, perché è quello il vero bersaglio di questa società neoliberista e divisoria, e non certo quello di difendere l'onore violato di un ombelico scoperto e la scandalosa riscoperta della Salaria di antica memoria. Nessuno che si soffermi sull'uso spasmodico e maniacale del cellulare in classe che, a mio modesto avviso, andrebbe tenuto spento, e non usato per filmare il tempo che passa, venendo così percepito come cordone, quello si osceno e morboso, ombelicale virtuale. In fondo, il tanto odiato grembiulino era assai più democratico, non c'era nessuna altra divisa sociale imposta dalla cultura consumista, si era tutti uguali nella diversità. Altrove è ancora in uso la divisa scolastica, tipica dei college anglosassoni, ed è assolutamente obbligatoria anche in tutti paesi comunisti e socialisti che da sempre ne esaltano la funzione educativa. 
Personalmente, non li prenderei ad esempio, ho sempre odiato qualsiasi imposizione, figuriamoci l'odioso grembiule nero, ma potremmo anche pensare ad una sana via di mezzo tra un passatismo giustamente superato, obsoleto ed una finta libertà dei costumi, imposta culturalmente dalla società neoliberale, pronta a cavalcare le mode per innovare precarietà e fluidità, scambiata come scelta individuale. Salvo poi trovarsi davanti all'ennesima divisa giovanilistica che conforma tutti senza più distinzione, in una solitaria divisione, confusiva ed emozionale.

Diamo semmai più spazio mediatico alle sane proteste ed alle occupazioni degli studenti, non censuriamo la vera protesta, perché queste storielle da gossip decadente di fine impero hanno solo il compito di sopire le rivendicazioni nelle piazze, curiosamente occultate e sminuite. Si pensi piuttosto all'alternanza Scuola-Lavoro, anzi, Scuola-disoccupazione, dove i nostri ragazzacci saranno finalmente felici, liberi, lasciati soli ma senza più speranza, però, guai mai senza la coperta di Linus dello smartphone e del selfie eterno ad libitum. Video ergo sum...



domenica 20 febbraio 2022

L'UOMO TRIPARTITO




L'antroposofia (o Scienza dello spirito), inaugurata dal pensatore au­stria­co Rudolf Steiner (1861-1925), si presenta come la via spirituale più adatta al nostro tem­po, in quanto capace di con­ci­liare le istanze della scienza con quel­le della fe­de, gli im­pulsi della co­noscenza con quelli del­la religio­sità. Il cammino di R. Steiner ha inizio con lo studio e la cura edito­riale delle opere scientifiche di J.W. Goethe, grazie alle quali Steiner com­pre­se l'importanza del pensiero puro, libero da rappresentazioni sen­sibili, che animano la conoscenza riflessa, incapace di connettersi al mondo ideale degli archetipi.
Sull'onda di questo tipo di pensiero Goethe poté cogliere nell'ambito dell'osservazione scientifica il motivo del Fenomeno archetipico: trovò così che il dinamismo vegetale, nelle sue alterne fasi di contrazione ed espansione, segue il principio della pianta primordiale (Urpflanze).
La concezione goethiana del mondo, e soprattutto la dimen­sione cono­sci­tiva che essa suggerisce, è il primo cardine dell'antroposo­fia, come tale identificato dallo Steiner nel testo La filosofia della liber­tà.
Il secondo cardine è il principio del cristocentrismo: Cristo come cen­tro dell'universo, dell'evoluzione spirituale, della biografia umana. R. Stei­­ner distingue nettamente la personalità storica del Gesù di Nazaret dalla dimensione cosmica e universale del Cristo: in base a ciò egli de­scrive tutto il cammino evolutivo del cosmo, del nostro pianeta e della storia delle civiltà umane, un cammino mirato al fatto che, quan­to più l'umanità si identificherà con l'impulso-Cristo deposto dal sa­crificio del Golgotha in ogni uomo (ovvero con il principio dell'Io spiri­tuale), tanto più la Terra compirà la sua missione di divenire il “Cosmo dell'amore”.
Il terzo cardine su cui poggia l'antroposofia è una nuova concezione della storia recente ispirata a un evento che ha segnato l'epoca moder­na, iniziata nel xv secolo e chiamata dall'antroposofia “epoca dell'anima co­sciente”. Questo evento, verificatosi, nel 1879 è coinciso – dice R. Steiner – con il fatto che l'arcangelo Michele ha scacciato dai cieli gli “spiriti delle tenebre” e li ha precipitati sulla Terra: qui essi inducono l'uomo al­l'e­goismo materialistico, ma Michele, l'arcangelo dell'intelligenza, li con­­trasta, invitando l'uomo a quel pensare puro che è sintesi di scienza e fede: primo gradino perché ogni essere umano scopra e viva l'esperienza dell'Io spirituale, ovvero l'esperienza del “Cristo in noi”.
La proposta filosofica di R. Steiner è che l'uomo del nostro tempo, se vuole davvero avere coscienza della vita interiore e della vita del co­smo, deve sviluppare l'individualismo etico: sviluppare la libertà inte­riore del pensiero, promuovere il pensare libero dei sensi a vera e obiettiva guida della nostra vita dell'anima, ac­canto al senso della fan­tasia morale ispi­rata dall'Io.

L'uomo tripartito: l'alfabeto dell'antroposofia:

Come tante altre scienze, anche l'antroposofia, o Scienza dello spirito, si esprime attraverso una serie di parole-chiavi, anzi attraverso un parti­co­lare alfabeto. Questo alfabeto è costituito da tre segni fondamentali e inso­stituibili - pensare, sentire, volere: tre segni che ci dicono che l'es­sere uma­no è for­mato da tre parti, cioè che è tripartito o triarticolato.
Ognu­no di noi avverte in sé e percepisce nella propria interiorità que­ste tre di­verse facoltà - il pensare, il sentire, il volere.
Il pensare è l'attività razionale o sensitiva, che si esprime in noi at­tra­verso il polo neuro-sensoriale. Questo polo è lo strumento della sen­sibilità, del pensiero, della coscienza. Di questa attività razionale siamo consapevo­li, in es­sa siamo desti, tant'è che quest'attività ci accompagna durante il cosid­detto stato di veglia.
Il sentire è l'attività emozionale dell'essere umano che si esprime at­traverso il sistema ritmico della zona mediana (ritmo cardio-respirato­rio). In questa zona siamo parzialmente desti, nel senso che solitamente non siamo padroni, non siamo consapevoli e ben coscienti delle nostre emo­zioni, pur vivendole, perciò ci poniamo di fronte a esse come in una condi­zione di sogno. Il nostro sentire naturale fluttua come un sogno, la­scian­dosi spesso trascinare dagli stimoli esterni. Questo polo è lo stru­mento del sentimento e dell'affettività.
Il volere è l'attività delle nostre volizioni, delle nostre aspirazioni pro­fonde, dei nostri bisogni fisici (sete, fame, sonno eccetera). Il volere noi lo percepiamo attraverso il movimento degli arti e attraverso il calo­re pro­veniente dal metabolismo. Siamo però inconsapevoli di fronte al perché delle nostre volizioni e per lo più le subiamo, senza possederne la causa: viviamo nel volere come in una condizione di sonno pro­fondo. Questo polo è lo stru­mento del movi­mento e del metabolismo, lo stru­mento delle voli­zioni.
L'uomo pertanto non è libero né nel volere né nel sentire, è soltanto po­tenzialmente libero nel pensare: questo è l'assunto di base della Filosofia della libertà di R. Steiner.

Ma vediamo ora, più da vicino, come questa tripartizione dell'uomo in pen­sare, sentire, volere si rifletta sul piano fisico, sulla struttura, sull'ar­chitettura del corpo e come le diverse parti ne risultino diffe­ren­ziate.
Il pensare si esprime nel polo neuro-sensoriale, nella testa, che ha forma sferica e ossa immo­bili (tranne la mascella). Le ossa della testa sono ester­ne, mentre le parti molli sono all'interno.
Il sentire si esprime nella zona mediana, nel torace: qui i muscoli fa­sciano le ossa che a loro volta racchiudono le parti molli; le ossa delle co­stole sono elastiche, quindi a metà fra l'immobilità e la mobilità. La strut­tura del torace ha ancora qualcosa della sfericità della testa ma è divisa dalle costole.
Il volere si esprime nel polo inferiore, che si identifica con l'addome e con gli arti, costituiti da parti molli che racchiudono le ossa; le ossa qui sono mobili e hanno una struttura raggiata: per esempio, un osso alla co­scia, due alle gambe, cinque alle estremità (femore, tibia-peròne, piede).
L'immobilità dunque connota la struttura degli organi del pensare, l'ela­sti­cità quelli del sentire, la mobilità quelli del volere. A sua volta il calore con­nota il metabolismo della zona del volere, il ritmo cardiaco e re­spi­ra­to­rio connota la zona mediana, il freddo caratterizza il polo neuro-sen­so­riale.

La triparti­zione ritorna poi anche nelle singole parti del corpo, per esempio: nella testa il cranio ha forma sferica immobile, il naso è ela­sti­co, mentre la mascella (elemento del volere) è mobile; nel piede il tallone è in piccolo il polo cefalico, mentre le dita sono la struttura rag­giata. Occorre guardarsi tuttavia dall'eccessivo schematismo tri­par­tito, altri­menti si ca­drebbe proprio nella trappola che, nel Faust di Goethe, Mefi­stofele tende al giovane studente, raccomandandogli proprio gli studi di logica e il ne­cessario procedere per sillogismi e rigide asso­ciazioni.
Queste tre facoltà - pensare, sentire, volere - non sono che l'espres­sione soggettiva o interiore dei tre corpi base che - secondo Rudolf Steiner - costi­tuiscono l'architettura totale dell'essere umano e sono gli stessi che for­mano i tre regni della natura, minerale, vegetale, animale.

1. Il corpo fisico è la componente materiale del corpo umano che con­di­vidiamo con il regno minerale. Per esso valgono le categorie di nume­ro, peso, mi­sura. Nella morfologia umana questo corpo si esprime elettiva­men­te attraverso la forza struttu­rante del sistema osteo-muscolare. Nell'es­sere umano il corpo fisico si sviluppa entro l'arco dei primi sette anni: la seconda dentizione viene appunto a scandire il termine di que­sto processo e l'inizio del successivo, cioè la formazione o totale incar­nazione del corpo eterico. Il bambino si identifica con l'attività volitiva, con le volizioni, infatti è tutto un organo di percezione fisica. Da ciò si comprende come l'elemento corri­spondente al corpo fisico sia la Terra, quindi la mineralità.

2. Il corpo eterico è la componente vitale del corpo umano che con­­­­divi­diamo con il regno vege­tale. Le forze eteriche sono forze di cre­scita, di me­ta­mor­­fosi, di rit­­mo: sono insomma forze formatrici. Nell'essere umano l'at­tività di questo corpo si esprime elettivamente attraverso il sistema ghian­dolare, mentre nelle piante si esprime tramite la fotosin­tesi clorofil­liana. Esso si sviluppa completamente nel bambino nell'arco di tempo che va dai 7 ai 14 anni, e termina con la pubertà, quando sboc­ciano le forze del corpo successivo, il corpo astrale. Per questa sua vitali­tà l'elemento corri­spon­dente al corpo eterico è l'Acqua.

3. Il corpo astrale è la componente neurosensoriale dell'essere uma­­no che condi­vidiamo con gli animali; è la sede degli istinti, delle passioni, delle pulsioni, dei moti di simpatia-antipatia: i tipici moti dell'astralità posseduti dagli animali, che essi nutrono in risposta agli stimoli esterni. Le categorie dell'astrale sono dunque movimento, sensibilità e vita inte­rio­re. La sua di­sar­monia è la causa della malattia. Su piano organico l'astrale si esprime elet­tivamente attra­verso l'attività del sistema ner­voso e il suo elemento è l'Aria. Questo corpo si sviluppa particolarmente nel terzo set­tennio, fra i 14 e i 21 anni circa.

Com'è facile osservare, il vegetale, in quanto esclusivamente animato dalle forze eterico-fisiche, ha per lo più una crescita verticale, mentre l'ani­male, grazie al possesso del corpo astrale, perde questa verticalità e divie­ne orizzontale. Rispetto al vegetale l'animale ha compiuto una rota­zione di 90 gradi, l'uomo invece ne compie una di 180 gradi. Egli infatti re­cupera la verticalità e acquista la stazione eretta. A consen­tirgli ciò è la presenza nell'uomo di un'ulteriore componente - l'Io - che nel corso dell'evoluzione terrestre ha dato a lui creatività spi­ri­tuale e di­mensione morale, l'uso del linguaggio e del pensiero. L'essere umano avverte sog­gettivamente l'atti­vità dell'Io attra­verso il calore e la pulsazione del san­gue, pertanto il suo elemento è il Fuoco.
Quali sono, all'interno dell'essere umano, i rapporti fra questi corpi? Nelle piante e negli animali inferiori cor­po fisico e corpo eterico non so­no collegati: ledere il fisico non significa ledere l'eterico, tant'è che se lediamo il tronco di una pianta stimoliamo la sua vitalità a un'attività accentuata oppure se tagliamo un arto a un gambero alla prima muta da esso ricresce un moncone o se tagliamo la coda alla lucertola essa ri­spunta. Negli ani­mali superiori eterico e fisico sono invece ben collegati, tant'è che ledere il corpo fisico significa ledere anche il corpo eterico.
Nell'essere umano questi rapporti fra i corpi sono regolati da altri even­ti, dal sonno e dalla morte. Durante il son­no, l'Io, insieme con il corpo astra­le, si distacca dal cor­po eterico-fisico, che rimane disteso nel letto. Con la morte invece anche il corpo eterico, insieme con il corpo astrale e l'Io, si distacca dal corpo fisico.
Questo schema tripartito proposto dall'antroposofia non si applica pe­rò soltanto all'essere uma­no, ma anche, per esempio, al mondo vege­tale, co­me è stato ben dimo­strato dal botanico Wilhelm Pelikan, assai noto in ambito antropo­sofico. La pianta, come abbiamo visto, possiede soltanto un corpo fisico ed eterico, eppure nelle sue parti riflette il principio della tri­par­tizione:

* La radice della pianta è la parte più minerale e corrisponde al polo neuro-sensoriale dell'uomo.

* Le foglie corrispondono alla zona mediana o sistema ritmico.

* I fiori, in quanto sono organi della riproduzione, corrispondono al polo metabolico dell'uomo, agli organi del ricambio, del volere.


Ecco perché prima dicevamo che l'uomo, rispetto alla pianta, ha com­piu­to una rotazione di 180 gradi: la radice vegetale è infatti nell'uomo testa, mentre i fiori sono il polo inferiore. A dire il vero, nell'uomo vi è perfino un albero rovesciato, l'albero respiratorio, formato da trachea e bronchi.
Da ciò deriva, nella medicina antroposofica, l'impiego delle singole parti della pianta utilizzate per curare i corrispondenti disturbi delle singole parti del corpo. A ciò la botanica di ispirazione antroposofica aggiunge un altro principio: le piante più curative sono in genere quelle in cui una parte prevale sulle altre o è più sviluppata rispetto alle altre, in cui le forze eteriche quasi si concentrano in una parte. Ciò indica che la pianta cura nell'uomo i disturbi di quella zona con cui la parte preva­lente è in analogia. Questo è uno dei modi più visibili in cui la pianta manifesta il suo potere di guarigione, gli altri modi sono quelli chimici, relativi alla presenza di alcaloidi, tannini, amari, oli eterei eccetera. Alcuni esempi: la grossa radice della brionia o della mandragora, la grande espansione flo­reale del sambuco, il frutto gigantesco della zucca.
Nel regno minerale, invece, dunque sul piano fisico, l'idea tripartita si ritrova secondo Steiner nei tre elementi chiave dell'alchimia:

* il sale corrisponde al pensare e al polo neuro-sensoriale, freddo

* il mercurio corrisponde al sentire e al sistema ritmico

* lo zolfo corrisponde al volere e al polo metabolico, caldo.


Nel polo inferiore dell'essere umano, nel polo del metabolismo e del movimento, dominano i processi eterico-fisici: le cellule dell'intestino si ri­generano, le cellule dell'apparato riproduttivo si moltiplicano. Ma non è così per il polo neuro-sensoriale: qui le cellule nervose non si rige­ne­rano. Perché? Per il fatto - sostiene l'antroposofia - che il polo superiore ha sa­crificato la sua vitalità eterico-fisica a favore della vita conosci­tiva, a favo­re della memoria, dell'immaginazione, della fantasia, del senso logico. E qui troviamo un esempio di una grande legge dello spirito: "il superiore vi­ve grazie all'inferiore", i processi coscienziali si sviluppano perché la vita­lità fisica diminuisce, non si può essere troppo vitali e co­scienti insieme. E' la legge espressa nel Vangelo di Giovanni dal­l'episo­dio della «lavanda dei piedi».
Che cosa succede invece quando l'individuo si ammala? Succede che l'equilibrio fra i tre corpi o fra le tre facoltà si sbilancia. Può capitare allo­ra, se l'uomo si è troppo identificato, per un certo periodo, con i biso­gni fisici, che il polo meta­bolico, il polo caldo del volere, prenda il so­pravvento: si crea allora un ec­cesso di calore, una infiammazione. Se in­vece predomina troppo il polo neuro-sen­soriale, freddo e minerale, se ci si intellettualizza troppo, prevale allora l'indurimento, la sclerosi oppu­re il tumore. Allora possiamo dire che ciò che nella pianta è deforma­zione di una parte, nell'uomo è malattia, perché diviene squilibrio delle facoltà, del pensare, sentire, volere.
L'infiammazione e la sclerosi sono le due direzioni polari della malattia: i due archetipi.

Nella storia dell'Occidente degli ultimi secoli ci sono state tre grandi malattie endemiche: la lue, la tubercolosi e il cancro, tutte conseguenze della diffusione del materialismo.
La lue, infatti, per le gravi conse­guenze che la fase terziaria porta sul sistema nervoso, fu l'esito di una prepotente invasione delle forze del volere sul pensare: è il caso di Guy de Maupassant, scrittore naturalista, e di Friedrich Nietzsche, filosofo della volontà di potenza. La stessa vo­lontà di potenza che percorse l'Europa nel XVI secolo, quando la sifilide mieté 20 milioni di morti.
La tubercolosi è invece conseguenza di un'invasione del volere sulla zona mediana, sul sentire: di qui la successiva nascita della forma men­tis del tuber­colotico, spesso afflitto da tormenti sentimen­tali, paure dei fantasmi, fra­gilità emotiva. Si pensi a Chopin, a Robert Louis Stevenson, a Edgar Allan Poe, a Kafka.

Il cancro, per la frequenza di que­sta malattia negli organi del volere (ricambio e apparato riprodut­tivo), è un eccesso del polo inferiore nella sua stessa sede, con conseguente sur­plus di vita eterico-fisica che caoti­camente si riproduce. Questo caos cellu­lare è la diretta conseguenza della mancanza delle forze dell'Io.
Il principio della tripartizione o tricotomia - come si chiamava un tempo - non è però una scoperta dell'antroposofia, perché era ben noto alle civiltà antiche: gli antichi Indiani seguaci della filosofia Samkhya distinguevano infatti fra la coscienza luminosa e calma (sattva), l'ambito umano delle passioni (rajas) e la zona oscura degli istinti (tamas). I Greci, e in partico­lare Platone, distinguevano la personalità umana in nous, psyche, soma. Anche il cristianesimo, almeno quello delle origini, come ricorda Paolo in 1 Tessalonicesi 5,23, ammetteva la tripartizione dell'uomo in spirito, anima, corpo (pneuma, psyche, soma), proba­bil­mente derivante dalla tripartizione dell'anima umana secondo gli an­ti­chi Ebrei in bâsâr, nefeš, ruach.

Rudolf Steiner non attinge però la concezione tripartita dal mondo anti­co, dalla letteratura religiosa d'Oriente e d'Occidente, ma la riscopre con nuovi mezzi, con gli strumenti scientifico-spirituali offerti appunto dall'an­troposofia. E la espone esattamente per la prima volta 80 anni fa, sul finire della Grande Guerra, nel volume Gli enigmi dell'anima. Steiner riscopre la tripartizione dell'uomo e la riformula autonoma­mente sul piano della logica e della filosofia della scienza. Sotto questo aspetto il diretto predecessore di Steiner è Hegel, che distin­se i tre mo­menti dialettici di tesi, antitesi e sintesi (per esempio, essere, essenza, concetto; arte, religione, filosofia), momenti che furono da Hegel conce­piti come tappe progressive dello spi­rito, gradi di un cammino evo­lutivo che fa da perno a tutto il divenire storico tendente all'auto­coscienza.
Da ciò possiamo comprendere la stessa natura dell'antroposofia, che non è per nulla una via nostalgica dello spirito, tesa al recupero di anti­che ve­rità esoteriche, ma una nuova via spirituale che vuol com­pren­dere il pre­sente dell'uomo, partendo dalle migliori forze di cui oggi l'uomo poten­zial­mente dispone. Queste migliori forze sono appunto il pensiero libero, im­personale, il pensare come trampolino verso la cono­scenza del mondo spi­ri­tuale e verso la comprensione del senso del de­stino umano. 
Ha scritto He­gel: «Il pensare fa sì che l'anima, di cui anche l'animale è dotato, divenga spirito»; da questa citazione hegeliana parte Rudolf Steiner nella Filosofia del­la libertà (p.21) per indicare il primato del pensare sulle restanti facol­tà.

Il pensare è dunque il faro la cui luce disegna nelle tenebre il cam­mino che l'uomo dovrà seguire per un adeguato ampliamento della co­scienza. Ma non è stato sempre così.
Non sempre il pensare è stato il faro, non sempre è stato esso a indi­care il percorso dell'evoluzione spirituale dell'uomo. Per buona parte del Medioevo occidentale, per esempio, la facoltà predominante del­l'uomo era il sentire. L'«itinerario della mente a Dio» più che un cam­mi­no di co­no­scenza era un percorso tutto animato dalla devozione, co­sti­tuito dalle tappe della fede, dalle verità della rivelazione. Le pa­gine ascetiche di Bonaventura da Bagno­regio sulle «tre vie» (medi­ta­zione, preghiera, con­templazione) o quelle del mistico fiammingo Jan van Ruysbroeck sui tre tipi di vita (attiva, interiore e con­templativa) sono un grande esempio di questa via spirituale del pas­sato, di questa ricerca di nuovi orizzonti interiori fondata sul sentire. Ciò non vuol dire che i me­die­vali ignorassero l'importanza del pensare, ma semplicemente che non ne avvertivano il primato sulle altre facoltà, perché - come si soleva dire - philosòphia ancilla theologiae.
Se facciamo ancora un passo indietro nel tempo, se risaliamo al pri­mo e al secondo millennio, all'apogeo della civiltà egizia, meso­pota­mica e semi­tica in genere, vediamo che invece l'uomo traeva le sue forze so­prat­tutto dal volere: la saggezza che l'uomo di questo periodo cerca e ottiene non è un particolare patrimonio di conoscenze (sul ti­po della saggezza greca) ma è ricchezza della volontà, ricchezza mo­rale, educa­zione dell'agire più che del pensare. Ma ricordiamo an­che che la civiltà babi­lonese è quella che ha creato l'astrologia e che la civiltà egizia è quella che ha trasmesso all'Oc­ci­den­te la magia: ora, le arti divina­torie e magi­che, fondate su rituali pre­stabiliti, su tecniche sacre, sono estra­nee alle conquiste del pensare e alle aperture del sentire, piuttosto sono espres­sione della volontà, del fatto che l'uomo vuole elevarsi al rango di Dio non seguendo la via della cono­scenza o della devozione, ma seguendo l'impulso della volontà.

Il pensiero, invece, il pensiero libero dai sensi, come lo chiama Steiner, il pensiero vivente è il punto di partenza della via spirituale dei nostri tempi, della via che conduce all'autocoscienza.
In un trattato alchemico (Gloria Mundi del 1526) si legge che «la Pietra filosofale è familiare a tutti gli uomini, giovani e vecchi, si trova in campa­gna, nei villaggi, in città, in tutte le cose create da Dio e tutta­via è di­sprezzata da tutti. Ricchi e poveri la maneggiano tutti i giorni... E tuttavia nessuno la apprezza, benché sia, dopo l'anima, la cosa più meravigliosa e più preziosa della Terra... Tuttavia è considerata la più vile e la più mise­rabile delle cose terrestri». La Pietra filosofale degli al­chimisti, il Lapis philosophorum, era appunto il pensiero, secondo l'in­terpretazione antro­posofica, il pensiero di cui ognuno può disporre come prima espressione, come arto dell'Io.La triade pensare, sentire, volere è dunque l'alfabeto dell'antroposo­fia. Comprendendo questa grafia, comprendendo la tripartizione dell'anima, ci apriamo il varco alla comprensione dell'intero messaggio dell'antroposofia: possiamo così cogliere l'importanza del triplice cam­mino di conoscenza (im­ma­gina­zione, ispirazione, intuizione), compren­dere la natura tripartita del­le gerarchie spirituali, conoscere il triplice destino dell'anima dopo la mor­te e il segreto dell'evoluzione spirituale dell'uomo e del cosmo.

di Gabriele Burrini






giovedì 17 febbraio 2022

SANKARA E L'ORGOGLIO AFRICANO



Sankara oggi sarebbe percepito dall'attuale sinistra neoliberale come un rossobruno, un sovranista, un autarchico populista, invece fu l'unico socialista rivoluzionario ad evitare derive autoritarie.
Infatti, proprio come Allende in Cile, anche lui di estrazione marxiana, fu eliminato dalla CIA ed i suoi alleati, perché rappresentava un pericoloso precedente storico contro l'agenda imperiale neoliberista.      Agenda neoliberista che oggi ha realizzato il salto di qualità anche nella creazione di quelle forme pensiero, oggi paradossalmente, appannaggio dell'area di sinistra. Forme pensiero materializzate un po' come la famosa nuvoletta di Fantozzi, che oggi domina la nuova maggioranza silenziosa, perbenista, conformista e piccolo borghese. 
Sankara fu anche un massone progressista, proprio come Allende ed Olof Palme, tre Fratelli uccisi dalla stessa mano, tutti e tre rappresentanti di modelli da osteggiare, da quelli più socialdemocratici, fino a quelli più marcatamente marxiani.
Uccidendo i più importanti epigoni delle fratellanze progressiste, il pantheon massonico internazionale è stato spostato politicamente a destra, premiando la parte conservatrice e neo-aristocratica oggi dominante da 50 anni.
A partire dagli anni 70 fino a tutti gli 80, furono cancellati dalla storia tutti gli esempi di mondi diversi da quelli capitalisti, non solo, tutte le gradazioni intermedie che contenessero paradigmi in qualche modo socialisti e popolari. Non è un caso se ne parli poco o per nulla di questi grandi personaggi, e per questo è giusto ricordarli, iniziando proprio dal più grande, quello meno conosciuto, il Compagno e Fratello Sankara.

Rivoluzionario, ma senza l’idealismo di Che Guevara, fervente socialista, ma senza le derive staliniste o maoiste, terzomondista, ma senza mai piangersi addosso, pur da presidente di una delle Nazioni più povere e arretrate del mondo, mente libera, ma pratica e tutto fuorché utopista. Nell’Africa nera è molto difficile incontrare qualcuno che non sappia chi sia Thomas Sankara. Il presidente del Burkina Faso morto nel 1987 è diventato un simbolo grazie al suo esempio, perché ha fatto vedere al mondo che non servivano tante utopie per cambiare le cose, ma volontà, carisma e idee chiare.
Thomas Sankara è stato senza ombra di dubbio un personaggio diverso da tutti gli altri, e per questo difficile da inquadrare con comode etichette. 
Nei suoi appena quattro anni di governo intervenne in tutti gli aspetti della vita dei suoi concittadini, dimostrando una lungimiranza e una visione molto concreta: fece costruire pozzi, scuole, centri per la maternità, ospedali, farmacie, cercando però allo stesso tempo di emancipare il proprio Paese dagli aiuti internazionali che, sosteneva, altro non erano se non un nuovo controllo neocolonialista sugli Stati dell’Africa. Invitava a consumare “burkinabé”, prodotti locali, fece costruire ferrovie, formò insegnanti per abbattere il tasso altissimo di analfabetismo, fece coltivare milioni di piante per fermare la desertificazione (ogni occasione pubblica era buona per mettere un albero a dimora). Iniziò una imponente campagna vaccinale contro meningite e febbre gialla, e implementò cure gratuite per ogni patologia, iniziando ad edificare ospedali pubblici che mai erano esistiti prima, curando milioni di africani.
Sankara fu ucciso il 15 ottobre, sedici giorni dopo che ebbe pronunciato il suo discorso:

“Noi pensiamo che il debito debba essere considerato dalla sua origine.
Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo.
Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato, sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini.
Noi non c’entravamo niente con questo debito.
Quindi non possiamo pagarlo.
Il debito è ancora il neocolonialismo con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici, ma dovremmo dire piuttosto “assassini” tecnici. Sono loro che ci hanno proposto canali di finanziamento e finanziatori, un termine che si usa ogni giorno come se ci fossero uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri [gioco di parole in francese: sbadigliatore / finanziatore.
Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati, ci hanno presentato dossier e movimenti finanziari allettanti e noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più; siamo stati indotti a compromettere i nostri popoli per 50 anni e più.
Il debito nella sua forma attuale controllata e dominata dall’imperialismo è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a norme che a noi sono completamente estranee, in modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout-court di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia di investire da noi con l’obbligo del rimborso.
Ci chiedono di rimborsare il debito. Non è un problema morale.
Rimborsare o non rimborsare non è un problema d’onore.

Signor Presidente, abbiamo prima ascoltato e applaudito la signora primo ministro norvegese intervenuta qui: ha detto, lei che è europea, che il debito non può essere rimborsato per intero. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo i nostri finanziatori non moriranno, di questo state pure certi; ma se noi paghiamo, noi moriremo, e anche di questo state certi. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò: finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E parlano di crisi. No, signor Presidente: hanno giocato, hanno perso, è la regola del gioco.
E la vita continua.

Noi non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare; non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito; non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato.
Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica ma non si parla mai del piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate.
Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla troppo poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato.
Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, abbiamo noi il dovere di dire almeno che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.
Il debito è anche conseguenza di contrasti.
Quando ci parlano di crisi economica dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. 
La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che i popoli diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché i popoli rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individui. C’è crisi perché qualche individuo deposita nelle banche estere somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa. 
C’è la crisi perché di fronte a queste ricchezze che sono nelle mani di individui di cui si possono conoscere i nomi, i popoli si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro Soweto di fronte a Johannesburg. C’è lotta, e l’esacerbarsi di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.
Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio: equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario; equilibrio a sfavore delle nostre popolazioni. No, non possiamo essere complici. No, non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue e vivono sul sudore della nostra gente; non possiamo accompagnarli nelle loro attività assassine.

Signor Presidente, sentiamo spesso parlare di club: Club di Roma, Club di Parigi, club dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, dei Dieci, forse dei Cento o che so io. E’ normale che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Noi abbiamo il dovere di creare oggi il Fronte Unito di Addis Abeba contro il Debito. 
E’ solo così che potremo dire oggi che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose: abbiamo, al contrario, intenzioni fraterne; del resto i popoli d’Europa non sono contro i popoli dell’Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo dunque un nemico comune. Il Club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola, ma che noi non abbiamo la stessa morale degli altri.
Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire allo stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Noi non possiamo accettare che ci parlino di dignità, di merito verso chi paga e di perdita di fiducia verso chi non paga.
Noi dobbiamo dire, al contrario, che non è normale oggi che si preferisca riconoscere che i più grandi ladri sono i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un peccatuccio per sopravvivere, per necessità. I ricchi, solo loro che rubano al fisco, alle dogane, sono loro che sfruttano il popolo. Signor Presidente, non è provocazione o spettacolo: dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe.
Chi non vorrebbe qui che il debito fosse semplicemente cancellato? 
Quelli che non vogliono farlo possono subito uscire, prendere l’aereo e andare subito alla Banca Mondiale a pagare. Lo vogliamo tutti! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani” senza maturità e esperienza. 
Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. 
Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un obbligo; e posso citare tra quelli che dicono di non pagare il debito, sia rivoluzionari che non rivoluzionari, sia giovani che anziani.

Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare: non ha la mia età ed è rivoluzionario. 
Ma posso citare anche François Mitterrand che ha detto che i popoli africani non possono pagare. 
Posso citare la signora Primo Ministro di Norvegia: non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo. Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny: non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, almeno il suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare, e la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio, in Africa – almeno nell’Africa francofona. E’ per questo d’altronde che è normale che paghi un contributo maggiore qui [risate].

Signor Presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente Lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la necessità di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, o bellico: per evitare che ci facciamo assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito io non sarò qui alla prossima conferenza. Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, potremo evitare di pagare, consacrando le nostre magre risorse al nostro sviluppo. 
E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, contro un asiatico.
Perciò dobbiamo anche, nella scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Io sono militare e porto un’arma. Ma, signor Presidente, vorrei che ci disarmassimo, perché io porto l’unica arma che possiedo: altri hanno nascosto le armi che pure portano.
Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti potremo fare pace a casa nostra.
Potremo anche usare le nostre immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo, il nostro sottosuolo, sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prelevare la tecnologia e la scienza in ogni luogo in cui si trovano.

Signor Presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi poveri e deboli. I manganelli e i coltellacci che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasportare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo invece di importarlo.
Il Burkina Faso è venuto qui a esporvi la cotonata, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso, per vestire il Burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga dall’Europa o dall’America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.
La ringrazio, signor Presidente.
La patria o la morte. Vinceremo!”







giovedì 10 febbraio 2022

PERCHÉ SAN REMO È SAN ROMA



Intanto, volevo informarvi che, se non siete ancora vaccinati, potete tranquillamente partecipare al prossimo Festival di San Remo, quella è una terra di mezzo e non chiedono il Pass. Cosa rimane della passata gara canora più famosa d'Italia? Poco o nulla, sicuramente tanta propaganda, tanta melassa, i soliti buoni sentimenti declinati in salsa fluida, ammiccamenti sessuali finto trasgressivi, tanti, troppi tatuaggi inutili, malvestitismo ed ascolti da record. Etero costretti dalle produzioni a scimmiottare gay, gay che scimmiottano maci, poche o niente lesbiche, tutto rigorosamente declinato al maschile, travestiti tristissimi da anni 30 che manco ne "Il Vizietto" di Tognazzi, battesimi pagani che invogliano a diventare cattolici anche i più ferventi atei, ma con tanto di coro gospel che certifica la confusione in atto, zeppe come se piovessero dal cielo dell'Ariston, canzoni che non rimangono in testa manco a martellate e pubblico adorante che balla in maschera, nel senso proprio della mascherina. Note positive, sicuramente un'ottima scenografia, un'eccezionale conduzione orchestrale, arrangiamenti moderni, quasi perfetti, nonostante i brani proposti e la penuria di voci.

Un festival molto formale, troppo, sicuramente molto borghese. Una kermesse che vuole imporci solo la liturgia dell'apparenza e su questo ha spinto sull'acceleratore. Bisognava dare un contentino agli italiani di seconda generazione, al mondo gender, agli ultimi che poi saranno i primi, il tutto con una sempreverde icona gerontocratica, Gianni Morandi l'immortale. Quello che traspare è il giovanilismo forzato come fede e come miraggio, la forma fisica o la finta femminilizzazione, sempre in salsa macista. Un Festival molto maschile, e non importa mettersi una gonna o un tutù per lottare per i diritti civili, dove le donne hanno avuto ancora una volta un ruolo ancillare, appena coreografico e, quando diventano protagoniste, sono sempre uomini travestiti.
Un Festival da anni 50, solo adattato ai tempi moderni, ma con quello spirito conservatore proprio nell'esagerare il bisogno di mostrare una presunta diversità, giustificandone la strumentalizzazione, che diventa bandiera, anzi, bandierina da calcio d'angolo senza goal, e quindi ancora una volta divisione. Tanto domani è un altro giorno, si spengono le luci e tutti tornano a lavorare, almeno chi ha il GP. Un festival dove si celebrano le nudità da operetta e ci scandalizza di quanto Grignani sia ingrassato. La forma fisica prima di tutto, l'efficienza, l'esteriorità. Sembra di essere nel ventennio, ma un ventennio dove le maschere sono cadute e ci si mescola annoiati durante l'orgia di Stato. Mancava solo Papa Bergoglio in calza maglia e sarebbe stato perfetto, peccato sia andato da Fazio. Poi i soliti comici penosi, Zalone e Fiorello ad alzare l'età media, che vomitano gag stupidine, miserevoli e noiose. Intorno una masnada di sbarbi usciti da una festa in maschera, felici di rappresentare la generazione del progresso. Loro c'erano!

Il messaggio che viene proposto di "saturazione sessuale", e quindi di una sorta di conseguente censura, è chiaro. Vince la sublimazione, vedere ma non toccare, ci si esaurisce nell'idea di libertà sessuale, castrandola e ridicolizzando le cosiddette diversità, ufficializzandole secondo i canoni estetici classici, patriarcali, di come vede e percepisce il cittadino comune benpensante la modernità e le sue curiose avanguardie. Perché non si può essere legittimamente e normalmente omosessuali senza avere parrucconi e fondo tinta? Si attinge dal loro immaginario, però in chiave fumettistica, senza una reale provocazione, ma scimmiottandone i ruoli. Nessuna rivoluzione, semmai una rivoluzione senza palle in tutti i sensi. Tutto è percepito possibile, però filtrato dai media, della serie "Io sono io, voi non siete un cazzo...", sesso quasi esorcizzato, eros a zero, voglia di bromuro, altro che grafene, altro che diritti civili, sembra la parodia di Salo' di Pasolini, realizzata in tempi neoliberisti, dove tutto è tragicamente ridicolo, anche il piagnisteo della ragazza italiana di colore alla quale hanno detto di lamentarsi di essere ancora percepita come nera. Al posto che esserne fiera, di vantarsi della sua negritude oggi purtroppo perduta, ci tiene a farci sapere quanto si senta "italiana e bianca" come noi, sai che bello!
Orgoglio e pregiudizio piccolo, piccolo borghese.