INTRODUZIONE DOVEROSA E PERSONALE:
Quello che racconta Pape' nei suoi libri è un'altra verità che non troverete mai nella storiografia ufficiale, proprio perché scritta da un intellettuale ebreo dissidente, quindi non accusabile di antisemitismo, SEMMAI, di antisionismo. Una verità scomoda ed allo stesso tempo atroce, che lascia senza fiato, ma sempre documentatissima e molto centrata.
Mi limiterò a pubblicare in questa 1° parte la prefazione tratta dal suo libro "La pulizia etnica della Palestina", perché merita di essere conosciuto più di quanto non lo sia oggi, essendo stato isolato dal mainstream e, comunque, conosciuto solo da una nicchia di lettori e addetti ai lavori che, puntualmente e salvo rare eccezioni, evitano di citarlo.
Nella speranza di fornire qualche spunto di riflessione, senza mai voler scadere nell'odio gratuito quanto inutile.
In questo modo è possibile arrivare alla genesi del conflitto, senza essere accusati vigliaccamente di antisemitismo, favorendo anche tutti quegli israeliani democratici che oggi lottano per destituire l'attuale premier in patria.
La genesi del conflitto, da quando nacque lo Stato di Israele, ha risvolti molto simili all'attuale conflitto in corso.
Personalmente, amo la cultura ebraica, il loro cosmopolitismo, la loro capacità di unione fraterna, il loro ingegno, la loro capacità di risollevarsi da qualsiasi tragedia subita, come mi sento vicino ad un certo mondo intellettuale ed artistico, compreso il loro umorismo surreale.
Purtroppo, conosco molto bene la tragedia delle deportazioni nazifasciste della 2° Guerra Mondiale, dato che mia nonna paterna rischiò di finire in un lager, avendo un cognome ebreo.
Sono semplicemente molto critico sul sionismo che, nella sua accezione più estrema e fondamentalista, si rivela in primis il peggior alleato di Israele e della religione ebraica, oltre ad aver causato massacri e guerre senza fine alle popolazioni native di Palestina.
Mi sento vicino a Pappe' ma anche, per esempio e tra i tanti, a Moni Ovadia, orgoglioso e fiero ebreo dissidente contro le derive reazionarie e autoritarie del suo paese.
Se vogliamo ripartire da zero e, quindi dalla ricostruzione di una pace realistica e duratura tra le due popolazioni, bisognerà iniziare seriamente a studiare la storia del 48, gli orrori silenziati, le deportazioni di massa, le stragi, senza occultare più nulla, con coraggio e senza falsi pudori, perché la verità ci renderà liberi, almeno un po' più di prima.
Spero vivamente!
BIOGRAFIA ILAN PAPPE':
Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha pubblicato numerosi saggi.
Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese.
INTRODUZIONE AL LIBRO (PREFAZIONE):
La Casa Rossa era un tipico edificio dell'antica Tel Aviv. Orgoglio dei costruttori e degli artigiani ebrei che l'avevano fabbricato negli anni Venti, era stato destinato ad ospitare la sede del locale consiglio dei lavoratori. Tale rimase finché, verso la fine del 1947, divenne il quartiere generale dell'Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista in Palestina.
Situato vicino al mare, sulla Yarkon Street, nella parte nord di Tel Aviv, l'edificio costituisce un'ulteriore gradevole aggiunta alla prima città “ebraica” sul Mediterraneo, la “Città Bianca”, come la chiamavano affettuosamente i suoi letterati ei suoi notabili.
In quei giorni, infatti, a differenza di oggi, il biancore immacolato delle sue case inondava ancora l'intera città nell'opulenta luminosità tipica dei porti del Mediterraneo di quell'epoca e di quella regione. Era una vista gradevole, un'elegante fusione di motivi Bauhaus con l'originaria architettura palestinese, in una mescolanza che veniva chiamata levantina nel senso meno spregiativo del termine. Tale era anche la Casa Rossa, con i suoi semplici tratti rettangolari, abbelliti da archi frontali che incorniciavano l'ingresso e sostenevano i balconi dei due piani superiori. Forse era stata l'associazione con un movimento di lavoratori ad aver ispirato l'aggettivo “rossa”, o forse era la sfumatura rosa che assumeva al tramonto ad aver dato alla casa il suo nome.
La prima ipotesi è la più attendibile in quanto l'edificio continuò ad essere associato alla versione sionista del socialismo quando, nel 1970, divenne l'ufficio centrale del movimento israeliano dei kibbutz. Case come questa, importanti resti storici del periodo del Mandato britannico, hanno spinto l'UNESCOa dichiarare nel 2003 Tel Aviv patrimonio dell'umanità.
Oggi la casa non c'è più, vittima dello sviluppo che ha raso al suolo quell'edificio storico per far posto a un parcheggio vicino al nuovo hotel Sheraton. Quindi, anche in questa strada, non è rimasta alcuna traccia della Città Bianca, che si è lentamente trasformata, come per magia, nella dilagante, inquinata e stravagante metropoli che è la moderna Tel Aviv.
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina.
La stessa sera trasmessa alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno.
A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominata nel codice Piano (Daletin ebraico), questa era la quarta e ultima versione di piani meno sofisticati che stabilivano il destino che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e per la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti non avevano delineato chiaramente come la direzione sionista pensava di affrontare la presenza di una popolazione palestinese tanto numerosa che viveva sulla terra agognata come propria dal movimento nazionale ebraico. Quest'ultimo e definitivo progetto dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene. Simcha Flapan, uno dei primi storici che notò l'importanza del piano, rivela: «La campagna militare contro gli arabi, inclusa la “conquista e distruzione delle aree rurali” fu avviata dal Piano Dalet dell'Haganà».
L'obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina.
Come cercherò di dimostrare nei primi capitoli di questo libro, il piano era da un lato il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere un'esclusiva presenza ebraica in Palestina, dall'altro una risposta agli sviluppi sul campo dopo che il governo britannico aveva deciso di porre fine al Mandato. Gli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetti per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulita. La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948.
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano, deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di un'operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l'umanità.
Dopo l'Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l'umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l'avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall'uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate.
Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l'espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948.
Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna della terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata, e ancora oggi non è riconosciuto come un fatto storico e tantomeno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente sia moralmente.
La pulizia etnica è un crimine contro l'umanità e le persone che oggi lo commettono sono premurose dei criminali da portare davanti a tribunali speciali. Può essere difficile decidere come definire o come trattare, nella sfera legale, quanti iniziarono e perpetrarono la pulizia etnica in Palestina nel 1948, ma è possibile descrivere i loro misfatti e giungere a una ricostruzione storiografica più accurata di quelle fino a ora disponibili e a una posizione morale di maggiore integrità.
Conosciamo i nomi delle persone che sedevano in quella stanza all'ultimo piano della Casa Rossa, sotto manifesti in stile marxista, che proponevano slogan del tipo «Fratelli in armi» e «Pugno di acciaio» e ostentavano i «nuovi» ebrei – muscolosi, robusti e abbronzati – con i fucili puntati da dietro barriere protettive nella «coraggiosa lotta» contro i «nemici arabi invasori». Conosciamo anche i nomi degli ufficiali superiori che eseguirono gli ordini sul campo. Sono tutte figure familiari nel pantheon dell'eroismo israeliano. Non molto tempo fa molti di loro erano ancora vivi e occupavano posizioni di primo piano nella politica e nella società israeliane; pochissimi sono oggi ancora in vita.
Per i palestinesi, e per chiunque altro rifiutasse di accettare la narrazione sionista, era chiaro, molto tempo prima che questo libro fosse scritto, che costoro erano autori di crimini, ma che erano riusciti a sfuggire alla giustizia e probabilmente non sarebbero mai stati sottoposti a giudizio per ciò che avevano commesso. Per i palestinesi, la forma più profonda di frustrazione, al di là del trauma, è stato il fatto che l'atto criminale di cui questi uomini furono responsabili sia stato totalmente negato e che la loro sofferenza sia stata completamente ignorata fin dal 1948.
Circa trent'anni fa, le vittime della pulizia etnica iniziarono a ricostruire il quadro storico che la narrazione ufficiale israeliana aveva cercato in ogni modo di nascondere e distorcere.
La storiografia israeliana parlava di «trasferimento volontario» di massa di centinaia di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente le loro case ei loro villaggi per osare via libera agli eserciti arabi invasori che puntavano a distruggere il neonato Stato ebraico.
Nel 1970 gli storici palestinesi, in particolare Walid Khalidi, raccogliendo memorie e documenti autentici su quanto era accaduto al loro popolo, furono in grado di ricostruire una parte significativa dello scenario che Israele aveva cercato di cancellare. Essi furono però rapidamente messi in ombra dalle pubblicazioni come Genesi 1948 di Dan Kurzman, che apparve nel 1970 e nuovamente nel 1992 (questa volta con un'introduzione di uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina, Yitzhak Rabin, al tempo primo ministro di Israele). Ci fu però anche chi sostenne apertamente il punto di vista palestinese, come Michael Palumbo, il cui Il palestinese Catastrofe, pubblicato nel 1987, confermava la versione palestinese degli eventi del 1948 con l'ausilio di documenti dell'ONU e interviste a profughi ed esuli, le cui ricordi di quello che avevano subito durante la Nakba dimostravano di essere ancora ossessivamente vivide.
Negli anni Ottanta, la comparsa sulla scena israeliana della cosiddetta “nuova storia” avrebbe potuto imprimere una svolta importante nella lotta per la memoria in Palestina.
Si trattava del tentativo, da parte di un piccolo gruppo di storici israeliani, di rivedere la narrazione sionista della guerra del 1948. Io ero uno di loro.
Ma noi, i nuovi storici, non abbiamo mai contribuito in modo significativo alla lotta contro la negazione della Nakba perché abbiamo eluso la questione della pulizia etnica e, tipico degli storici diplomatici, ci siamo concentrati sui particolari.
Tuttavia, utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani, gli storici revisionisti sono riusciti a dimostrare quanto fosse falsa e assurda la pretesa israeliana che i palestinesi se ne fossero andati “volontariamente”, sono stati in grado di confermare molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città e hanno rivelato che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità, massacri compresi.
Una delle figure più note tra quanti hanno scritto sull'argomento è lo storico israeliano Benny Morris. Basandosi esclusivamente su documenti degli archivi militari israeliani, Morris ha fornito alla fine un quadro molto parziale di quanto era accaduto sul campo. Eppure, tutto questo è stato sufficiente perché alcuni dei suoi lettori israeliani si rendono conto che la “fuga volontaria” dei palestinesi era un mito e che l'immagine che Israele aveva di sé, di aver condotto nel 1948 una guerra “morale” contro un mondo arabo “primitivo” e ostile, era notevolmente falsa e forse completamente superata.
Il quadro era parziale perché Morris prendeva alla lettera, o persino come verità assoluta, i rapporti dell'esercito israeliano che trovava negli archivi. Di conseguenza ignorò le atrocità come la contaminazione dell'acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e le decine di massacri perpetrati dagli ebrei.
Egli continuò a insistere – sbagliando – che prima del 15 maggio 1948 non c'erano state espulsioni forzate. Le fonti palestinesi indicano chiaramente che mesi prima dell'ingresso delle milizie arabe in Palestina, e quando ancora gli inglesi erano responsabili della legge e dell'ordine nel paese – quindi prima del 15 maggio –, le truppe ebraiche erano già riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi.
Se Morris e gli altri avessero utilizzato le fonti palestinesi o fossero ricorsi alla storia orale, sarebbero stati in grado di giungere a una migliore conoscenza della pianificazione sistematica che era dietro l'espulsione dei palestinesi nel 1948 e di fornire una descrizione più veritiera dell'enormità dei crimini commessi dai soldati israeliani.
C'era allora, e c'è tuttora, un'esigenza, tanto storica quanto politica, di andare al di là di descrizioni come quella che troviamo in Morris, non solo al fine di completare il quadro (in realtà di fornirne l'altra metà), ma anche – e molto più importante – perché non c'è altro modo, per noi, di capire fino in fondo le radici dell'attuale conflitto israelo-palestinese. Soprattutto però, c'è ovviamente un imperativo morale di continuare la lotta contro la negazione del crimine. Il tentativo di andare oltre è già stato avviato da altri.
Il lavoro più importante, come era da attendersi, visti i suoi significati contributi precedenti alla lotta contro la negazione, è stato il libro fondamentale di Walid Khalidi: Tutto Quello Resti. Si tratta di un elenco dei villaggi distrutti, che è ancora una guida essenziale per chiunque voglia comprendere l'enormità della catastrofe del 1948.Si potrebbe affermare che la storia già emersa è di per sé sufficiente per far sorgere interrogativi inquietanti. Tuttavia, la “nuova storia” e i recenti contributi storiografici palestinesi non sono riusciti a far breccia nell'ambito della coscienza pubblica e dell'azione morale. In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948.
In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e usarlo per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948. Non ho dubbi che l'assenza fino a oggi del primo paradigma sia legato alla ragione per cui la negazione della catastrofe ha potuto continuare così a lungo.
Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che “tragicamente, ma inevitabilmente” portò all'espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l'opposto: l'obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina , che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Alcune settimane dopo l'inizio delle operazioni di pulizia etnica, i vicini Stati arabi inviarono un piccolo esercito – piccolo in proporzione alla loro forza militare complessiva – per cercare inutilmente di impedirla.
La guerra con gli eserciti arabi regolari non mise fine alle operazioni di pulizia etnica fino a queste quando non furono completate con successo nell'autunno del 1948.
Questa impostazione – adottare il paradigma della pulizia etnica come base di partenza per la narrazione del 1948 – qualcuno potrà sembrare come un'imputazione già dall'inizio.
A ogni modo il mio J'accusare è realmente diretto contro i politici che progettarono ei generali che perpetrarono la pulizia etnica. Eppure, quando faccio i loro nomi non lo faccio perché voglio che siano sottoposti a un processo postumo, ma allo scopo di umanizzare tanto le vittime quanto i carnefici: voglio evitare che i crimini commessi da Israele siano attribuiti a fattori elusivi quali “le circostanze”, “l'esercito” o, come la pone Morris, “UN la guerra vieni UN la guerra” e simili vaghi riferimenti che deresponsabilizzano gli Stati sovrani e permettono agli individui di sfuggire alla giustizia.
Io accuso, ma faccio anche parte della società che è condannata in questo libro.
Mi sento responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani.
Di ciò tratta, in fondo, questo libro.
Non mi risulta che in precedenza qualcuno abbia mai tentato questa impostazione.
Le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quel che accadde in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica.
Da un lato la versione sionista-israeliana sostenendo che la popolazione locale se ne andò “volontariamente”, dall'altro i palestinesi parlano di una “catastrofe” che li colpì, la Nakba. Il termine Nakba è stato adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell'Olocausto ebraico (Shoah), ma l'aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente.
Il libro si apre con una definizione di pulizia etnica che spero sia abbastanza trasparente da essere accettata da tutti, definizione che è servita come base per le azioni legali contro gli esecutori di simili crimini nel passato e ai nostri giorni. Può sorprendere che il classico discorso giuridico, complesso e (per molti esseri umani normali) impenetrabile, è qui sostituito da un linguaggio chiaro, privo di espressioni gergali. Tale semplicità non minimizza l'orrore dei fatti e non attenua la gravità del crimine. Al contrario: il risultato è una descrizione onesta di una politica atroce che la comunità internazionale oggi si rifiuta di perdonare.
La definizione generale di che cosa è la pulizia etnica si applica quasi alla lettera al caso della Palestina. In quanto racconto, la storia di quello che accadde nel 1948 emerge come un capitolo non complicato, ma niente affatto, di conseguenza, semplificabile o secondario nella storia dell'espropriazione della Palestina.
In realtà, l'adozione del prisma della pulizia etnica permette facilmente di penetrare il manto di complessità che i diplomatici di Israele quasi istintivamente si esibiscono e dietro il quale gli accademici di Israele si nascondono abitualmente nel respingere i tentativi esterni di criticare il sionismo e lo Stato ebraico per la sua politica e il suo comportamento.
«Gli stranieri», dicono nel mio paese, «non capiscono e non possono capire questa storia sconcertante» e quindi non occorre nemmeno tentare di spiegargliela. Né permettono loro di intervenire nei tentativi di risolvere il conflitto – a meno che non accettino il punto di vista di Israele. Tutto quanto possono fare, come i nostri governi dicono al mondo da anni, è di permettere a “noi”, gli israeliani, in quanto rappresentanti della parte “civilizzata” e “razionale” nel conflitto, di trovare una soluzione equa per “noi stessi” ” e per l'altra parte, i palestinesi, che in definitiva compendiano il mondo arabo “non civilizzato” ed “emotivo” al quale appartiene la Palestina. Da quando gli Stati Uniti si sono dimostrati pronti ad adottare questo approccio perverso e ad avallare l'arroganza che lo sostiene, abbiamo avuto un “processo di pace” che non ha portato, e non poteva portare, da nessuna parte, dal momento che ignora totalmente il nocciolo del problema.
Ma la storia del 1948 non è per niente complicata e quindi questo libro è scritto sia per quanti vi si avvicinano per la prima volta, sia per quanti, già da molti anni e per varie ragioni, sono stati coinvolti nella questione palestinese e nei discorsi su venire a una soluzione. È nostro dovere strappare dall'oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l'umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele.