venerdì 26 aprile 2024

CONTRORDINE COMPAGNI, LE SCIE CHIMICHE ESISTONO!




Dopo le recenti grandi alluvioni a Dubay e negli Emirati Arabi, l'informazione ufficiale ha sdoganato ulteriormente il tema scie chimiche. In realtà, sono anni che i media rilasciano a piccolissime dosi queste veline, magari nascoste in piccoli trafiletti o relegate alla versione on line dei quotidiani, in maniera volutamente confusiva e ambigua.
Questa ponderata semina si è così sedimentata lentamente nell'inconscio collettivo dei lettori. Oggi, però, lo "svelamento" è diventato sempre più evidente, tanto che la tematica fino a ieri considerato tabù, irriso dai conduttori radiofonici e televisivi, viene presentato come verità acquisita.
Il nuovo meme ufficialista è il seguente, ovvero: "LO ABBIAMO SEMPRE SAPUTO".
Gli stessi loschi figuri che fino a qualche anno fa negavano la geoingegneria, come per magia e solo cambiando il nome, ora sono tutti concordi della sua esistenza e pratica.
Una sorta di totalitarismo in punta di piedi, passo dopo passo, fino alla metabolizzazione dell'oscuro fenomeno non più censurabile, visto l'aumento massivo di semine celesti e relativi danni collaterali.
Ecco allora che il Corriere della Sera titola: "Scie chimiche per salvare il clima, la soluzione scientifica che potrebbe dare forza ai complottisti".
Da un lato si ammette il tanto vituperato Cloud Seeding (termine corretto e scientifico), ma il problema viene spostato, perché ciò darebbe credito ai complottisti, questa strana razza invocata ogni volta che bisogna screditare chi dissente dalla voce del padrone.
Non solo, ci si preoccupa del fatto che i cosiddetti cospirazionisti avrebbero sempre avuto ragione, allora meglio essere cauti e utilizzare ancora per un po' il punto interrogativo riguardo ai "presunti" ma palesi danni collaterali provocati dalla geoingegneria celeste.
Perché avviene questo da parte dei fan dei normalizzatori e dai preposti a sentinelle dell'oracolo?
Perché costoro hanno bisogno dell'approvazione dell'autorità, della bolla papale dietro alla quale nascondersi per essere legittimati ad affermare una verità. Non possono darla vinta ai secolari avversari, pensando quindi di essere solo dei pavidi cialtroni.

Nei prossimi anni ci saranno sempre più sconvolgimenti climatici improvvisi e apparentemente senza senso, non più attribuibili al sedicente riscaldamento globale, perché questa farsa aveva un limite fisiologico. Dubay e gli Emirati Arabi sono solo gli ultimi esempi lampanti di un fenomeno che sta sfuggendo di mano e che non può rientrare nel calderone del minculpop del paradigma Green. Bisogna quindi concedere piccole verità per pararsi il culo e per non apparire troppo sprovveduti riguardo al tema che fino a ieri veniva rimosso dall'agorà. In questo modo il sistema prende due piccioni con una fava, da un lato, come dicevamo, lavora sull'accettazione popolare, dall'altro inizia timidamente a porre il problema prima che esploda definitivamente, come se lo avesse sempre saputo e ammesso.
L'anno scorso abbiamo conosciuto la stessa tragedia con le alluvioni che hanno messo in ginocchio la Romagna, ma forse i tempi erano prematuri per ammettere o porre dubbi sulle possibili cause artificiali del disastro. Meglio iniziare questo sporco lavoro partendo dall'estero, dagli arabi, da mondi lontani dall'occidente.

Oggi è bello notare nei social, come i negazionisti della prima ora, quelli che gridavano al GOMBLODDOH, quelli delle faccette risaiole, facciano finta di nulla e asseriscano di non aver mai negato nulla. Anzi, oggi disquisiscono sulla differenza tra scie chimiche e cloud seeding. C'è chi è arrivato perfino a dire che le scie chimiche non esistono mentre il cloud seeding si, perché le prime farebbero irrorazioni ad alta quota, mentre le seconde no, oppure, perché le scie chimiche avrebbero secondo i complottisti altri scopi, mentre il cloud seeding solo di controllo climatico. In realtà, questi lestofanti con la memoria corta, fino a ieri negavano massivamente il controllo climatico indicato dalla controinformazione, si incazzavano, offendevano chi osava porre criticità sull'argomento. Erano piuttosto fermi nella loro censura, bannavano, censuravano, non ne volevano sentir parlare.
Ora è bastato chiamarle in inglese e tutto è cambiato, come avessero subito un lavaggio del cervello, come avessero un falso ricordo e in qualche caso si autoconvincono.
In fondo sono solo dei poveracci esterofili, perché dire scie chimiche fa tanto sfigato, vuoi mettere con cloud seeding?
Ricordate la teoria del battito d'ali di una farfalla che può provocare disastri su vasta scala? Ecco, i cosiddetti improvvisi cambiamenti metereologici e sciagure annesse, sono la diretta ed ovvia conseguenza di un controllo climatico sfuggente e solo parzialmente realizzabile, se non a costo di grandi sacrifici per le popolazioni che le subiscono.
Riguardo ai cambiamenti climatici del pianeta, è vero che esistono, ma sono sempre esistiti da quando esiste la terra per i più svariati motivi che prescindono il problema della CO2 e per quelli propagandati dal paradigma Green.
Il sogno prometeico di dominare la natura rimane una pia illusione, una velleità perseguita
da illusionisti e apprendisti stregoni, ma questo non impedisce e non impedirà a lor signori di far piovere in un deserto a scapito di una bomba d'acqua in un altro paese o, ancor peggio, nello stesso, come è accaduto recentemente.
Chissà se più avanti i tempi saranno maturi per ammettere anche altri fenomeni della geoingegneria, usata per fini bellici e geopolitici.
Per ora dobbiamo accontentarci di leggere le contorsioni linguistiche e le arrampicate sugli specchi degli ufficialisti di ogni latitudine che rosicano in solitudine.
Contrordine compagni, le scie chimiche esistono, ops, volevo dire il cloud seeding!






martedì 16 aprile 2024

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di ILAN PAPPE' 2° parte


INTRODUZIONE DOVEROSA E PERSONALE:
Quello che racconta Pape' nei suoi libri è un'altra verità che non troverete mai nella storiografia ufficiale, proprio perché scritta da un intellettuale ebreo dissidente, quindi non accusabile di antisemitismo, SEMMAI, di antisionismo. Una verità scomoda ed allo stesso tempo atroce, che lascia senza fiato, ma sempre documentatissima e molto centrata.
Mi limiterò a pubblicare in questa 2° parte il 1° capitolo del suo libro "La pulizia etnica della Palestina", perché merita di essere conosciuto più di quanto non lo sia oggi, essendo stato isolato dal mainstream e, comunque, conosciuto solo da una nicchia di lettori e addetti ai lavori che, puntualmente e salvo rare eccezioni, evitano di citarlo.
Nella speranza di fornire qualche spunto di riflessione, senza mai voler scadere nell'odio gratuito quanto inutile.
In questo modo è possibile arrivare alla genesi del conflitto, senza essere accusati vigliaccamente di antisemitismo, favorendo anche tutti quegli israeliani democratici che oggi lottano per destituire l'attuale premier in patria.
La genesi del conflitto, da quando nacque lo Stato di Israele, ha risvolti molto simili all'attuale conflitto in corso.
Personalmente, amo la cultura ebraica, il loro cosmopolitismo, la loro capacità di unione fraterna, il loro ingegno, la loro capacità di risollevarsi da qualsiasi tragedia subita, come mi sento vicino ad un certo mondo intellettuale ed artistico, compreso il loro umorismo surreale.
Purtroppo, conosco molto bene la tragedia delle deportazioni nazifasciste della 2° Guerra Mondiale, dato che mia nonna paterna rischiò di finire in un lager, avendo un cognome ebreo.
Sono semplicemente molto critico sul sionismo che, nella sua accezione più estrema e fondamentalista, si rivela in primis il peggior alleato di Israele e della religione ebraica, oltre ad aver causato massacri e guerre senza fine alle popolazioni native di Palestina.
Mi sento vicino a Pappe' ma anche, per esempio e tra i tanti, a Moni Ovadia, orgoglioso e fiero ebreo dissidente contro le derive reazionarie e autoritarie del suo paese.
Se vogliamo ripartire da zero e, quindi dalla ricostruzione di una pace realistica e duratura tra le due popolazioni, bisognerà iniziare seriamente a studiare la storia del 48, gli orrori silenziati, le deportazioni di massa, le stragi, senza occultare più nulla, con coraggio e senza falsi pudori, perché la verità ci renderà liberi, almeno un po' più di prima.
Spero vivamente!

BIOGRAFIA ILAN PAPPE':
Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. 
Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha pubblicato numerosi saggi. 
Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese.

CAPITOLO 1. Una “presunta” pulizia etnica?
È parere di chi scrive che la pulizia etnica sia una politica
ben definita di un particolare gruppo di persone
per eliminare sistematicamente un altro gruppo da un
certo territorio, su basi di origini religiose, etniche o
nazionali. Tale politica implica violenza ed è spesso
associata a operazioni militari. Deve essere realizzata
con tutti i mezzi possibili, dalla discriminazione allo
sterminio, e comporta l’inosservanza dei diritti umani
e delle leggi umanitarie internazionali... La maggior
parte dei metodi di pulizia etnica costituiscono
gravi violazioni della Convenzione di Ginevra del
1949 e dei Protocolli supplementari del 1977. 

Definizioni di pulizia etnica
La pulizia etnica è oggi un concetto ben definito. Da astrazione associata quasi esclusivamente a quanto accaduto nell’ex Iugoslavia, “pulizia etnica” ha finito per indicare un crimine contro l’umanità, punibile secondo il diritto internazionale. Il modo particolare in cui alcuni generali e politici serbi usavano questa espressione fece tornare in mente agli studiosi di averla già sentita prima. Era stata usata infatti nella seconda guerra mondiale dai nazisti e dai loro alleati, tra i quali le milizie croate in Iugoslavia. 
Le radici dell’espropriazione collettiva sono di certo più antiche. 
Invasori stranieri hanno usato quel termine (o suoi equivalenti) e quel concetto, applicandoli regolarmente contro popolazioni indigene, dai tempi biblici fino all’età del colonialismo più sfrenato.
L’enciclopedia Hutchinson definisce la pulizia etnica come l’espulsione forzata volta a omogenizzare una popolazione etnicamente mista in una particolare regione o territorio. Scopo dell’espulsione è causare l’allontanamento del maggior numero possibile dei residenti, con tutti i mezzi a disposizione, inclusi quelli non violenti, come accadde con i musulmani in Croazia, espulsi dopo gli accordi di Dayton del novembre del 1995.
Tale definizione è accettata anche dal Dipartimento di Stato statunitense, i cui esperti aggiungono che parte essenziale della pulizia etnica è l’annullamento della storia di un territorio con ogni mezzo possibile. 
Il metodo più comune è quello dello spopolamento «in un’atmosfera che legittimi atti di rappresaglia e vendetta». Il risultato finale di simili azioni è l’insorgere del problema dei profughi. Il Dipartimento di Stato ha considerato, in particolare, quanto avvenuto nel maggio del 1999 a Peck nel Kosovo occidentale. Peck fu svuotata in ventiquattr’ore, un risultato che sarebbe stato possibile raggiungere solo grazie a una pianificazione pregressa seguita da una messa in atto sistematica. Per velocizzare l’operazione ci furono anche sporadici massacri. Quel che accadde a Peck nel 1999 ebbe luogo, quasi allo stesso modo, in centinaia di villaggi palestinesi nel 1948.
Se prendiamo in considerazione le Nazioni Unite, troviamo definizioni simili: nel 1993 si esaminò e discusse a fondo il concetto. 
Il Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (UNCHR) collega il desiderio di uno Stato o di un regime di imporre regole etniche su un’area mista – come per la formazione della “Grande Serbia” – al ricorso all’espulsione e ad altre azioni violente. 
La relazione che l’UNCHR pubblicò definiva atti di pulizia etnica quelli che includevano «la separazione degli uomini dalle donne, l’imprigionamento degli uomini, la distruzione delle case», assegnando poi quelle ancora in piedi a un altro gruppo etnico. 
Il rapporto rilevava che in alcune zone del Kosovo le milizie musulmane avevano opposto resistenza e, laddove c’era stata resistenza a oltranza, l’espulsione si era tramutata in massacri.

Il Piano israeliano del 1948, citato nella prefazione, contiene un repertorio di metodi di pulizia etnica che rientrano nelle modalità descritte dall’ONU e atte a definirla, preparando il retroterra per i massacri che accompagnarono l’espulsione di massa.
Queste definizioni di pulizia etnica sono anche quelle in auge negli ambienti colti e accademici. Drazˇen Petrovic´ è autore di uno dei più ampi saggi sulle definizioni di pulizia etnica, che associa al nazionalismo, alla formazione di nuovi Stati-nazione e alle lotte nazionali. In quest’ottica egli dimostra la stretta relazione tra politici ed esercito nel perpetrare i crimini ed esamina il ruolo dei massacri: i capi politici delegano l’attuazione della pulizia etnica al livello militare, senza necessariamente fornire alcun piano sistematico o istruzioni esplicite pur non lasciando dubbi sull’obiettivo finale.
Così, a un certo punto – e anche questo rispecchia esattamente ciò che accadde in Palestina –, i politici smettono di partecipare attivamente non appena l’ingranaggio dell’espulsione entra in azione come un enorme bulldozer che, spinto dalla sua stessa inerzia, si ferma soltanto quando ha completato il suo compito. 
I politici che hanno messo in moto questo meccanismo non si preoccupano minimamente di chi è schiacciato e ucciso. 
Petrovic´ e altri sottopongono alla nostra attenzione la differenza tra massacri che fanno parte di un genocidio, laddove siano premeditati, e massacri “non pianificati” che sono diretta conseguenza dell’odio e della vendetta, fomentati dai capi sullo sfondo di una direttiva generale per portare avanti la pulizia etnica.
Quindi, la definizione data dall’enciclopedia e da noi riportata sembra corrispondere al modo più dotto di concettualizzare il crimine della pulizia etnica. Secondo entrambi i punti di vista, la pulizia etnica è un tentativo di rendere omogenea una nazione a etnia mista, espellendo un particolare gruppo di persone, trasformandole in profughi e demolendo poi le case dalle quali sono state cacciate. 
Ci può ben essere un master plan, ma la maggior parte delle truppe impegnate nella pulizia etnica non ha bisogno di ordini diretti: sa in anticipo cosa deve fare. 
I massacri accompagnano le operazioni, ma quando si verificano non fanno parte di un piano di genocidio: sono la chiave tattica per accelerare la fuga della popolazione destinata all’espulsione. In seguito, gli espulsi saranno cancellati dalla storia ufficiale e popolare del paese ed esclusi dalla memoria collettiva. Quanto è accaduto in Palestina nel 1948, dalla fase di pianificazione all’esecuzione finale, secondo queste informate e dotte definizioni rappresenta un chiaro esempio di pulizia etnica.

Definizioni popolari
L’enciclopedia elettronica Wikipedia è una fonte di conoscenze e di informazioni accessibile a tutti. Chiunque può entrare, aggiungere o modificare le definizioni esistenti in modo che riflettano – intuitivamente piuttosto che empiricamente – un’ampia percezione pubblica di una certa idea o concetto. Come le definizioni accademiche o enciclopediche summenzionate, Wikipedia descrive la pulizia etnica come espulsione di massa e anche come crimine. Cito: Parlando in generale, per pulizia etnica si può intendere l’espulsione forzata di una popolazione “indesiderata” da un certo territorio, come risultato di una discriminazione religiosa o etnica, di considerazioni politiche, strategiche o ideologiche, o da una loro combinazione.
La voce elenca diversi casi di pulizia etnica nel XX secolo, cominciando dall’espulsione dei bulgari dalla Turchia nel 1913 sino ad arrivare all’evacuazione israeliana dei coloni ebrei da Gaza nel 2005. Questo elenco può sembrare un po’ strano perché pone nella stessa categoria la pulizia etnica nazista e l’allontanamento da parte di uno Stato sovrano di componenti della sua stessa popolazione dopo averli dichiarati coloni illegali. 
Ma questa classificazione diventa possibile grazie al criterio politico adottato da chi scrive – in questo caso tutti coloro che accedono al sito – cioè quello di accertarsi che l’aggettivo “presunto” preceda nel loro elenco ogni caso storico.
Wikipedia include anche la Nakba palestinese del 1948, ma non si evince se i curatori la giudichino un caso di pulizia etnica che non lascia spazio ad ambivalenze – come negli esempi della Germania nazista o della ex Iugoslavia – o se la considerino un caso più dubbio, simile forse a quello dei coloni ebrei che Israele evacuò dalla Striscia di Gaza. 
Un criterio accettato generalmente da questa e altre fonti per valutare la fondatezza delle accuse è un processo davanti a un tribunale internazionale. 
In altre parole, se i colpevoli sono stati assicurati alla giustizia, cioè processati da un tribunale internazionale, cade ogni ambiguità e quindi il crimine di pulizia etnica non è più “presunto”. Dopo un’ulteriore riflessione lo stesso criterio andrebbe applicato anche ai casi che avrebbero dovuto essere portati davanti alle corti di giustizia internazionali, ma non lo sono mai stati. La discussione rimane spesso aperta, tanto che alcuni crimini eclatanti contro l’umanità richiedono una lunga battaglia prima che il mondo li riconosca come fatti storici. Ben lo sanno gli armeni, il cui genocidio fu perpetrato quando nel 1915 il governo ottomano intraprese la sistematica decimazione del loro popolo. 
Si calcola che fino al 1918 siano morte un milione di persone, senza che siano mai stati portati in giudizio singole persone o gruppi di individui.

Pulizia etnica come crimine
La pulizia etnica è dichiarata crimine contro l’umanità nei trattati internazionali – per esempio in quello istitutivo della Corte Criminale Internazionale (ICC) –, soggetto al giudizio di un tribunale internazionale, sia che il crimine sia “presunto” o ampiamente conclamato. Nel caso della ex Iugoslavia è stato istituito appositamente all’Aia un Tribunale internazionale per giudicare responsabili ed esecutori, come pure ad Arusha, in Tanzania, nel caso del Ruanda. Altrove, la pulizia etnica è stata definita crimine di guerra anche quando non è stato aperto alcun procedimento legale vero e proprio (per esempio, per l’operato del governo sudanese nel Darfur).
Questo libro è scritto con la profonda convinzione che la pulizia etnica in Palestina debba radicarsi nella nostra memoria come crimine contro l’umanità ed essere tolta dall’elenco dei crimini presunti. 
Qui i responsabili non sono sconosciuti – sono un gruppo specifico di persone: gli eroi della guerra ebraica d’indipendenza, i cui nomi sono noti alla maggior parte dei lettori. 
Il primo è quello dell’indiscusso leader del movimento sionista, David Ben Gurion, nella cui residenza furono discussi e completati i primi e gli ultimi capitoli della storia della pulizia etnica. Lo aiutò un piccolo gruppo di persone che in questo libro chiamo la «Consulta», riunito in gran segreto con il solo scopo di progettare e pianificare l’espropriazione dei palestinesi. In uno dei rari documenti che registra una riunione della Consulta, questa è chiamata Comitato consulente, Haveadah Hamyeazet. 
In un altro documento compaiono gli undici membri del Comitato, i cui nomi, benché cancellati dal censore, sono tuttavia riuscito a ricostruire.
Questa cricca preparò i piani per la pulizia etnica e ne controllò l’esecuzione fino allo sradicamento di metà della popolazione autoctona palestinese. 
Ne facevano parte in primo luogo gli ufficiali di più alto grado dell’esercito del futuro Stato ebraico, come i leggendari Yigael Yadin e Moshe Dayan
A loro si univano personaggi poco conosciuti fuori d’Israele, ma profondamente radicati nel sentimento popolare, come Yigal Allon e Yitzhak Sadeh
Questi militari legarono con quanti noi oggi chiameremmo “orientalisti”, conoscitori del mondo arabo in generale e dei palestinesi in particolare, sia perché provenienti essi stessi da paesi arabi, sia perché esperti nel campo degli studi mediorientali, il nome di alcuni dei quali incontreremo in seguito.

Sia gli ufficiali che gli esperti erano assistiti da comandanti regionali, come Moshe Kalman, che ripulì la zona di Safad, e Moshe Carmel, che spopolò la maggior parte della Galilea. Yitzhak Rabin operò tanto a Lyyd quanto a Ramla, come pure nell’area della Grande Gerusalemme. Ricordatene i nomi, ma cominciate a non considerarli solo come eroi di guerra israeliani. Hanno di certo partecipato alla fondazione dello Stato ebraico ed è comprensibile che gli stessi israeliani diano il giusto valore alle azioni che li hanno aiutati a salvarsi da attacchi esterni, permettendogli di superare le crisi e soprattutto di trovare un rifugio sicuro dalle persecuzioni religiose in diverse parti del mondo. 
Ma la storia giudicherà il peso di queste conquiste quando sull’altro piatto della bilancia ci saranno i crimini da loro commessi contro il popolo nativo della Palestina. 
Tra gli altri comandanti regionali troviamo Shimon Avidan, che operò nel Sud e che Rehavam Zeevi – suo compagno di battaglie – ricordava molti anni dopo come «Comandante della brigata Givati, che ripulì il fronte da decine di villaggi e città». 
Era assistito da Yitzahak Pundak, che nel 2004 dichiarò su «Ha’aretz»: «C’erano duecento villaggi [sul fronte] e sono stati spazzati via. Abbiamo dovuto distruggerli altrimenti avremmo avuto qui gli arabi [cioè nella parte meridionale della Palestina] come li abbiamo in Galilea. Avremmo avuto un altro milione di palestinesi».
E inoltre c’erano gli ufficiali dei servizi segreti. Invece di limitarsi a raccogliere informazioni sul “nemico”, non solo ebbero un ruolo di primo piano nella pulizia etnica, ma parteciparono anche ad alcune delle peggiori atrocità parallele alla sistematica evacuazione dei palestinesi. Veniva lasciata loro l’autorità di decidere quali villaggi distruggere e quali abitanti giustiziare. 
Secondo quanto ricordano i sopravvissuti palestinesi, dopo che un villaggio o un quartiere era stato occupato, stava a questi decidere se il destino finale degli abitanti sarebbe stata la reclusione o la libertà, la vita o la morte. 
Nel 1948 Issar Harel – poi divenuto primo capo del Mossad e del Shabak, i servizi segreti israeliani – supervisionava le operazioni di questi ufficiali. 
La sua figura era ben nota a molti israeliani: basso e tozzo, nel 1948 era solo colonnello, ma malgrado ciò era l’ufficiale di più alto grado a sovrintendere gli interrogatori, a preparare le liste nere e ogni altra forma di oppressione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di ILAN PAPPE' 1° parte


INTRODUZIONE DOVEROSA E PERSONALE:
Quello che racconta Pape' nei suoi libri è un'altra verità che non troverete mai nella storiografia ufficiale, proprio perché scritta da un intellettuale ebreo dissidente, quindi non accusabile di antisemitismo, SEMMAI, di antisionismo. Una verità scomoda ed allo stesso tempo atroce, che lascia senza fiato, ma sempre documentatissima e molto centrata.
Mi limiterò a pubblicare in questa 1° parte la prefazione tratta dal suo libro "La pulizia etnica della Palestina", perché merita di essere conosciuto più di quanto non lo sia oggi, essendo stato isolato dal mainstream e, comunque, conosciuto solo da una nicchia di lettori e addetti ai lavori che, puntualmente e salvo rare eccezioni, evitano di citarlo.
Nella speranza di fornire qualche spunto di riflessione, senza mai voler scadere nell'odio gratuito quanto inutile.
In questo modo è possibile arrivare alla genesi del conflitto, senza essere accusati vigliaccamente di antisemitismo, favorendo anche tutti quegli israeliani democratici che oggi lottano per destituire l'attuale premier in patria.
La genesi del conflitto, da quando nacque lo Stato di Israele, ha risvolti molto simili all'attuale conflitto in corso.
Personalmente, amo la cultura ebraica, il loro cosmopolitismo, la loro capacità di unione fraterna, il loro ingegno, la loro capacità di risollevarsi da qualsiasi tragedia subita, come mi sento vicino ad un certo mondo intellettuale ed artistico, compreso il loro umorismo surreale.
Purtroppo, conosco molto bene la tragedia delle deportazioni nazifasciste della 2° Guerra Mondiale, dato che mia nonna paterna rischiò di finire in un lager, avendo un cognome ebreo.
Sono semplicemente molto critico sul sionismo che, nella sua accezione più estrema e fondamentalista, si rivela in primis il peggior alleato di Israele e della religione ebraica, oltre ad aver causato massacri e guerre senza fine alle popolazioni native di Palestina.
Mi sento vicino a Pappe' ma anche, per esempio e tra i tanti, a Moni Ovadia, orgoglioso e fiero ebreo dissidente contro le derive reazionarie e autoritarie del suo paese.
Se vogliamo ripartire da zero e, quindi dalla ricostruzione di una pace realistica e duratura tra le due popolazioni, bisognerà iniziare seriamente a studiare la storia del 48, gli orrori silenziati, le deportazioni di massa, le stragi, senza occultare più nulla, con coraggio e senza falsi pudori, perché la verità ci renderà liberi, almeno un po' più di prima.
Spero vivamente!

BIOGRAFIA ILAN PAPPE':
Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. 
Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha pubblicato numerosi saggi. 
Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese.

INTRODUZIONE AL LIBRO (PREFAZIONE):
La Casa Rossa era un tipico edificio dell'antica Tel Aviv. 
Orgoglio dei costruttori e degli artigiani ebrei che l'avevano fabbricato negli anni Venti, era stato destinato ad ospitare la sede del locale consiglio dei lavoratori. Tale rimase finché, verso la fine del 1947, divenne il quartiere generale dell'Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista in Palestina. 
Situato vicino al mare, sulla Yarkon Street, nella parte nord di Tel Aviv, l'edificio costituisce un'ulteriore gradevole aggiunta alla prima città “ebraica” sul Mediterraneo, la “Città Bianca”, come la chiamavano affettuosamente i suoi letterati ei suoi notabili. 
In quei giorni, infatti, a differenza di oggi, il biancore immacolato delle sue case inondava ancora l'intera città nell'opulenta luminosità tipica dei porti del Mediterraneo di quell'epoca e di quella regione. Era una vista gradevole, un'elegante fusione di motivi Bauhaus con l'originaria architettura palestinese, in una mescolanza che veniva chiamata levantina nel senso meno spregiativo del termine. Tale era anche la Casa Rossa, con i suoi semplici tratti rettangolari, abbelliti da archi frontali che incorniciavano l'ingresso e sostenevano i balconi dei due piani superiori. Forse era stata l'associazione con un movimento di lavoratori ad aver ispirato l'aggettivo “rossa”, o forse era la sfumatura rosa che assumeva al tramonto ad aver dato alla casa il suo nome. 
La prima ipotesi è la più attendibile in quanto l'edificio continuò ad essere associato alla versione sionista del socialismo quando, nel 1970, divenne l'ufficio centrale del movimento israeliano dei kibbutz. Case come questa, importanti resti storici del periodo del Mandato britannico, hanno spinto l'UNESCOa dichiarare nel 2003 Tel Aviv patrimonio dell'umanità.

Oggi la casa non c'è più, vittima dello sviluppo che ha raso al suolo quell'edificio storico per far posto a un parcheggio vicino al nuovo hotel Sheraton. Quindi, anche in questa strada, non è rimasta alcuna traccia della Città Bianca, che si è lentamente trasformata, come per magia, nella dilagante, inquinata e stravagante metropoli che è la moderna Tel Aviv.
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. 
La stessa sera trasmessa alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno
A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominata nel codice Piano (Daletin ebraico), questa era la quarta e ultima versione di piani meno sofisticati che stabilivano il destino che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e per la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti non avevano delineato chiaramente come la direzione sionista pensava di affrontare la presenza di una popolazione palestinese tanto numerosa che viveva sulla terra agognata come propria dal movimento nazionale ebraico. Quest'ultimo e definitivo progetto dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene. Simcha Flapan, uno dei primi storici che notò l'importanza del piano, rivela: «La campagna militare contro gli arabi, inclusa la “conquista e distruzione delle aree rurali” fu avviata dal Piano Dalet dell'Haganà». 
L'obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina.

Come cercherò di dimostrare nei primi capitoli di questo libro, il piano era da un lato il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere un'esclusiva presenza ebraica in Palestina, dall'altro una risposta agli sviluppi sul campo dopo che il governo britannico aveva deciso di porre fine al Mandato. Gli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetti per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulita. La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948.
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano, deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di un'operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l'umanità.
Dopo l'Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l'umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l'avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall'uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. 
Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l'espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. 
Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna della terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata, e ancora oggi non è riconosciuto come un fatto storico e tantomeno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente sia moralmente.

La pulizia etnica è un crimine contro l'umanità e le persone che oggi lo commettono sono premurose dei criminali da portare davanti a tribunali speciali. Può essere difficile decidere come definire o come trattare, nella sfera legale, quanti iniziarono e perpetrarono la pulizia etnica in Palestina nel 1948, ma è possibile descrivere i loro misfatti e giungere a una ricostruzione storiografica più accurata di quelle fino a ora disponibili e a una posizione morale di maggiore integrità.
Conosciamo i nomi delle persone che sedevano in quella stanza all'ultimo piano della Casa Rossa, sotto manifesti in stile marxista, che proponevano slogan del tipo «Fratelli in armi» e «Pugno di acciaio» e ostentavano i «nuovi» ebrei – muscolosi, robusti e abbronzati – con i fucili puntati da dietro barriere protettive nella «coraggiosa lotta» contro i «nemici arabi invasori». Conosciamo anche i nomi degli ufficiali superiori che eseguirono gli ordini sul campo. Sono tutte figure familiari nel pantheon dell'eroismo israeliano. Non molto tempo fa molti di loro erano ancora vivi e occupavano posizioni di primo piano nella politica e nella società israeliane; pochissimi sono oggi ancora in vita.
Per i palestinesi, e per chiunque altro rifiutasse di accettare la narrazione sionista, era chiaro, molto tempo prima che questo libro fosse scritto, che costoro erano autori di crimini, ma che erano riusciti a sfuggire alla giustizia e probabilmente non sarebbero mai stati sottoposti a giudizio per ciò che avevano commesso. Per i palestinesi, la forma più profonda di frustrazione, al di là del trauma, è stato il fatto che l'atto criminale di cui questi uomini furono responsabili sia stato totalmente negato e che la loro sofferenza sia stata completamente ignorata fin dal 1948.
Circa trent'anni fa, le vittime della pulizia etnica iniziarono a ricostruire il quadro storico che la narrazione ufficiale israeliana aveva cercato in ogni modo di nascondere e distorcere. 
La storiografia israeliana parlava di «trasferimento volontario» di massa di centinaia di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente le loro case ei loro villaggi per osare via libera agli eserciti arabi invasori che puntavano a distruggere il neonato Stato ebraico. 
Nel 1970 gli storici palestinesi, in particolare Walid Khalidi, raccogliendo memorie e documenti autentici su quanto era accaduto al loro popolo, furono in grado di ricostruire una parte significativa dello scenario che Israele aveva cercato di cancellare. Essi furono però rapidamente messi in ombra dalle pubblicazioni come Genesi 1948 di Dan Kurzman, che apparve nel 1970 e nuovamente nel 1992 (questa volta con un'introduzione di uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina, Yitzhak Rabin, al tempo primo ministro di Israele). Ci fu però anche chi sostenne apertamente il punto di vista palestinese, come Michael Palumbo, il cui Il palestinese Catastrofe, pubblicato nel 1987, confermava la versione palestinese degli eventi del 1948 con l'ausilio di documenti dell'ONU e interviste a profughi ed esuli, le cui ricordi di quello che avevano subito durante la Nakba dimostravano di essere ancora ossessivamente vivide.
Negli anni Ottanta, la comparsa sulla scena israeliana della cosiddetta “nuova storia” avrebbe potuto imprimere una svolta importante nella lotta per la memoria in Palestina. 
Si trattava del tentativo, da parte di un piccolo gruppo di storici israeliani, di rivedere la narrazione sionista della guerra del 1948. Io ero uno di loro. 
Ma noi, i nuovi storici, non abbiamo mai contribuito in modo significativo alla lotta contro la negazione della Nakba perché abbiamo eluso la questione della pulizia etnica e, tipico degli storici diplomatici, ci siamo concentrati sui particolari. 
Tuttavia, utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani, gli storici revisionisti sono riusciti a dimostrare quanto fosse falsa e assurda la pretesa israeliana che i palestinesi se ne fossero andati “volontariamente”, sono stati in grado di confermare molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città e hanno rivelato che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità, massacri compresi.
Una delle figure più note tra quanti hanno scritto sull'argomento è lo storico israeliano Benny Morris. Basandosi esclusivamente su documenti degli archivi militari israeliani, Morris ha fornito alla fine un quadro molto parziale di quanto era accaduto sul campo. Eppure, tutto questo è stato sufficiente perché alcuni dei suoi lettori israeliani si rendono conto che la “fuga volontaria” dei palestinesi era un mito e che l'immagine che Israele aveva di sé, di aver condotto nel 1948 una guerra “morale” contro un mondo arabo “primitivo” e ostile, era notevolmente falsa e forse completamente superata.

Il quadro era parziale perché Morris prendeva alla lettera, o persino come verità assoluta, i rapporti dell'esercito israeliano che trovava negli archivi. Di conseguenza ignorò le atrocità come la contaminazione dell'acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e le decine di massacri perpetrati dagli ebrei
Egli continuò a insistere – sbagliando – che prima del 15 maggio 1948 non c'erano state espulsioni forzate. Le fonti palestinesi indicano chiaramente che mesi prima dell'ingresso delle milizie arabe in Palestina, e quando ancora gli inglesi erano responsabili della legge e dell'ordine nel paese – quindi prima del 15 maggio –, le truppe ebraiche erano già riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi
Se Morris e gli altri avessero utilizzato le fonti palestinesi o fossero ricorsi alla storia orale, sarebbero stati in grado di giungere a una migliore conoscenza della pianificazione sistematica che era dietro l'espulsione dei palestinesi nel 1948 e di fornire una descrizione più veritiera dell'enormità dei crimini commessi dai soldati israeliani. 
C'era allora, e c'è tuttora, un'esigenza, tanto storica quanto politica, di andare al di là di descrizioni come quella che troviamo in Morris, non solo al fine di completare il quadro (in realtà di fornirne l'altra metà), ma anche – e molto più importante – perché non c'è altro modo, per noi, di capire fino in fondo le radici dell'attuale conflitto israelo-palestinese. Soprattutto però, c'è ovviamente un imperativo morale di continuare la lotta contro la negazione del crimine. Il tentativo di andare oltre è già stato avviato da altri.
Il lavoro più importante, come era da attendersi, visti i suoi significati contributi precedenti alla lotta contro la negazione, è stato il libro fondamentale di Walid Khalidi: Tutto Quello Resti. Si tratta di un elenco dei villaggi distrutti, che è ancora una guida essenziale per chiunque voglia comprendere l'enormità della catastrofe del 1948.
Si potrebbe affermare che la storia già emersa è di per sé sufficiente per far sorgere interrogativi inquietanti. Tuttavia, la “nuova storia” e i recenti contributi storiografici palestinesi non sono riusciti a far breccia nell'ambito della coscienza pubblica e dell'azione morale. In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948.

In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e usarlo per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948. Non ho dubbi che l'assenza fino a oggi del primo paradigma sia legato alla ragione per cui la negazione della catastrofe ha potuto continuare così a lungo. 
Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che “tragicamente, ma inevitabilmente” portò all'espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l'opposto: l'obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina , che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Alcune settimane dopo l'inizio delle operazioni di pulizia etnica, i vicini Stati arabi inviarono un piccolo esercito – piccolo in proporzione alla loro forza militare complessiva – per cercare inutilmente di impedirla. 
La guerra con gli eserciti arabi regolari non mise fine alle operazioni di pulizia etnica fino a queste quando non furono completate con successo nell'autunno del 1948.
Questa impostazione – adottare il paradigma della pulizia etnica come base di partenza per la narrazione del 1948 – qualcuno potrà sembrare come un'imputazione già dall'inizio. 
A ogni modo il mio J'accusare è realmente diretto contro i politici che progettarono ei generali che perpetrarono la pulizia etnica. Eppure, quando faccio i loro nomi non lo faccio perché voglio che siano sottoposti a un processo postumo, ma allo scopo di umanizzare tanto le vittime quanto i carnefici: voglio evitare che i crimini commessi da Israele siano attribuiti a fattori elusivi quali “le circostanze”, “l'esercito” o, come la pone Morris, “UN la guerra vieni UN la guerra” e simili vaghi riferimenti che deresponsabilizzano gli Stati sovrani e permettono agli individui di sfuggire alla giustizia. 
Io accuso, ma faccio anche parte della società che è condannata in questo libro. 
Mi sento responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani. 
Di ciò tratta, in fondo, questo libro.
Non mi risulta che in precedenza qualcuno abbia mai tentato questa impostazione. 
Le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quel che accadde in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica. 
Da un lato la versione sionista-israeliana sostenendo che la popolazione locale se ne andò “volontariamente”, dall'altro i palestinesi parlano di una “catastrofe” che li colpì, la Nakba. Il termine Nakba è stato adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell'Olocausto ebraico (Shoah), ma l'aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente.
Il libro si apre con una definizione di pulizia etnica che spero sia abbastanza trasparente da essere accettata da tutti, definizione che è servita come base per le azioni legali contro gli esecutori di simili crimini nel passato e ai nostri giorni. Può sorprendere che il classico discorso giuridico, complesso e (per molti esseri umani normali) impenetrabile, è qui sostituito da un linguaggio chiaro, privo di espressioni gergali. Tale semplicità non minimizza l'orrore dei fatti e non attenua la gravità del crimine. Al contrario: il risultato è una descrizione onesta di una politica atroce che la comunità internazionale oggi si rifiuta di perdonare.

La definizione generale di che cosa è la pulizia etnica si applica quasi alla lettera al caso della Palestina. In quanto racconto, la storia di quello che accadde nel 1948 emerge come un capitolo non complicato, ma niente affatto, di conseguenza, semplificabile o secondario nella storia dell'espropriazione della Palestina. 
In realtà, l'adozione del prisma della pulizia etnica permette facilmente di penetrare il manto di complessità che i diplomatici di Israele quasi istintivamente si esibiscono e dietro il quale gli accademici di Israele si nascondono abitualmente nel respingere i tentativi esterni di criticare il sionismo e lo Stato ebraico per la sua politica e il suo comportamento. 
«Gli stranieri», dicono nel mio paese, «non capiscono e non possono capire questa storia sconcertante» e quindi non occorre nemmeno tentare di spiegargliela. Né permettono loro di intervenire nei tentativi di risolvere il conflitto – a meno che non accettino il punto di vista di Israele. Tutto quanto possono fare, come i nostri governi dicono al mondo da anni, è di permettere a “noi”, gli israeliani, in quanto rappresentanti della parte “civilizzata” e “razionale” nel conflitto, di trovare una soluzione equa per “noi stessi” ” e per l'altra parte, i palestinesi, che in definitiva compendiano il mondo arabo “non civilizzato” ed “emotivo” al quale appartiene la Palestina. Da quando gli Stati Uniti si sono dimostrati pronti ad adottare questo approccio perverso e ad avallare l'arroganza che lo sostiene, abbiamo avuto un “processo di pace” che non ha portato, e non poteva portare, da nessuna parte, dal momento che ignora totalmente il nocciolo del problema.
Ma la storia del 1948 non è per niente complicata e quindi questo libro è scritto sia per quanti vi si avvicinano per la prima volta, sia per quanti, già da molti anni e per varie ragioni, sono stati coinvolti nella questione palestinese e nei discorsi su venire a una soluzione. È nostro dovere strappare dall'oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l'umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele.