giovedì 31 ottobre 2019

IN AMERICA LATINA E' IN CORSO UNA STORICA LOTTA DI CLASSE TRA CAPITALE E LAVORO: L'Antidiplomatico

Articolo tratto da "L'Antidiplomatico"



Intervista al Prof. Vasapollo:
"Io sono con i popoli che lottano contro il capitale transnazionale ovunque nel mondo. E quindi sono con il governo del Venezuela, della Bolivia e con i popoli che in Ecuador e in Cile manifestano contro i rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale".
L’America Latina è in ebollizione. In rapida successione Ecuador e Cile hanno mostrato al mondo la fragilità dei sistemi neo-liberali, costretti a reprimere le proteste popolari con la militarizzazione, lo stato d’eccezione e il coprifuoco, trasformando quindi i paesi in semi-dittature militari con gli spettri del passato che aleggiano soprattutto nel paese di Pinochet. La vittoria di Morales in Bolivia non riconosciuta dalle destre che hanno messo in scena violenze simili alle famigerate Guarimbas venezuelane, con incendi di materiale elettorale e delle autorità competenti al controllo del voto, d'altro canto, alimentano uno stato di profonda incertezza per il futuro del continente.
Come AntiDiplomatico abbiamo intervistato il prof. Vasapollo, professore alla Sapienza e uno dei massimi conoscitori del mondo dell’America Latina in Italia, per cercare di trarre alcune linee guida.

L'INTERVISTA:
Professore cosa sta succedendo nel continente?
I popoli si stanno ribellando al neo-liberismo. Ecuador, Cile e aspettiamo il voto di domenica prossima in Argentina che potrebbe finalmente mandare a casa il fallimentare Macrì. Sono tre governi che hanno imposto alle loro popolazione le fallimentari politiche economiche del Fondo Monetario Internazionale e questi sono i risultati.
Le immagini dei militari in Cile sono davvero raccapriccianti. Scene di uccisioni e rapimenti che gettano il continente indietro alle famigerate dittature militari?
Ieri a Plaza Italia, il cameraman di Telesur, una delle pochissime voci oneste in questo mondo di fake news di regime, è stata colpito dagli spari di soldati cileni che reprimevano una manifestazione pacifica di cittadini che protestavano contro lo stato d’eccezione imposto da Pinera. 
Sì, i video che sto vedendo in questi giorni dal Cile mi hanno gettato indietro con il tempo e ho provato più di un brivido. Ma non dimentichiamo che non è solo Ecuador e Cile. Non dimentichiamo quello che sta accadendo da mesi e totalmente censurato ad Haiti, dove governa un presidente fantoccio degli Stati Uniti senza nessuna legittimità e in Honduras, paese che ha subito il golpe contro il Presidente Zalaya nel 2007 e che da allora ha un Presidente senza nessuna legittimità e con un fratello arrestato per narco-traffico negli Stati Uniti. 
Un paese fallito in mano ad un regime vassallo del neo-liberismo che reprime il suo popolo ma che non fa notizia per l’ipocrita Unione Europea. Ma è palese come i popoli di questi paesi si stiano risvegliando, così come il popolo della Colombia, il cui governo di estrema destra non solo ha militarizzato il confine con il Venezuela e non ha rispettato la tregua di pace con le Farc, ma si macchia di decine e decine di omicidi di leader sociali nell'assordante silenzio della famigerata comunità internazionale. E la resistenza straordinaria del popolo venezuelano è stato un esempio per tutto il continente.

Si può spiegare meglio...?
Il popolo venezuelano vittima del golpe del 2002 contro Hugo Chavez, delle guarimbas del 2014 e del 2017, del più atroce e criminale blocco economico della storia recente - peggiore a quello di Cuba e che per molti tratti assomiglia agli assedi medioevali - ha mostrato al mondo che il regime neo-liberista non è invincibile. Si può sconfiggere. Per valori alti come la difesa della propria indipendenza, della propria sovranità e della propria autodeterminazione si possono affrontare grandi sacrifici a livello di tutto il popolo. E questo sta dando grande impulso al risveglio di tutto il continente.
I governi delle destre neo-liberiste che si erano raggruppati nel famigerato Gruppo di Lima per attaccare la sovranità del Venezuela stanno implodendo uno alla volta: è iniziato proprio il Perù con la crisi istituzionale senza precedenti tra Presidente e Parlamento, poi Ecuador e Cile. 
Aspettiamo le elezioni in Argentina e poi potrebbe ripartire un nuovo corso di socialismo progressista in America Latina. Siamo arrivati al punto di non ritorno: quando Duque, presidente della Colombia, è arrivato a presentare prove palesemente e ridicolmente false per cercare un pretesto per una guerra contro il Venezuela, in molti popoli è scattata una scintilla. Il risveglio dei popoli dell’America Latina getterà questi vassalli dell’imperialismo nella spazzatura della storia.

In Bolivia le destre non accettano la rielezione di Evo Morales. Nella notte si sono registrate altri incendi contro il Tribunale supremo elettorale a La Paz. C'è il rischio di una destabilizzazione del paese?
Il rischio c'è. E lo scenario possibile è quello che conosciamo bene in Venezuela. Non si riconoscono le elezioni, quando a vincere non è un mandante delle politiche neo-liberiste e si finanziano e armano gruppi per destabilizzare il paese. Temo lo scoppio di Guarimbas in Bolivia. Evo Morales ha dimostrato che il socialismo è più efficace delle politiche neo-liberiste e ha vinto le sue quarte elezioni democratiche con uno scarto di 10,1 sul secondo candidato Carlos Mesa.
In America Latina è in corso uno scontro di classe tra capitale e lavoro che impone a tutti di fare delle scelte chiare. Io in Bolivia sto con le nazionalizzazioni, con il socialismo e con il popolo che ha confermato Evo Morales alla guida del paese.

L’ha sorpreso vedere quel Parlamento europeo che tante volte ha attaccato la sovranità del Venezuela votare addirittura contro l’apertura di un dibattito sui fatti in Cile?
Non mi ha sorpreso. Considero l’imperialismo dell’Unione Europea pericoloso tanto quello degli Stati Uniti.

Cosa risponde però a coloro che accusano di ipocrisia chi vede in modo diverse le manifestazioni in Bolivia e Venezuela, da un lato, e quelle in Ecuador e Cile…?
Questa è una domanda molto importante, che merita una premessa chiara. 
Stiamo vivendo una fase di recrudescenza della lotta di classe internazionale. 
Da marxista la mia analisi parte sempre da qui: conflitto tra lavoro e capitale. E il capitale è transnazionale, rappresentato sempre più dal Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e tutte quelle sovrastrutture sovranazionali create proprio perché il capitale internazionale possa sopraffare il lavoro, che è nazionale e quindi a discapito della sovranità dei singoli paesi. 
Ebbene, in questa recrudescenza di lotta di classe internazionale, ci sono paesi in cui il capitale scende in piazza finanziando colpi di stato contro stati indipendenti, come le Guarimbas in Venezuela (e in Bolivia ieri notte), e ci sono paesi in cui il capitale reprime le popolazioni che lottano contro le politiche neo-liberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale.
Io sono con i popoli che lottano contro il capitale transnazionale ovunque nel mondo. E quindi sono con il governo del Venezuela, della Bolivia e con i popoli che in Ecuador e in Cile manifestano contro i rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale.

In quest’ottica si potrebbe creare una nuova fase di internazionalismo dei popoli in lotta?
Si, lo credo fermamente. L’obiettivo internazionalista proletario oggi è proprio quello di mettere insieme tutti i popoli che lottano per la sovranità e autodeterminazione, come in Ecuador e Cile, da un lato, con chi resiste per non vedersela portare via, come in Venezuela e Bolivia. Il nuovo internazionalismo deve sviluppare sempre più una coscienza di classe nuova, che abbia come punti di riferimento la denuncia della guerra imperialista – che è guerra economica, psicologica e mediatica più che militare oggi – l’organizzazione del potere popolare che spazzi via ogni legame con quella finta sinistra venduta al neo-liberismo.

Ma in Europa tutto tace?

In tanti paesi del mondo è in corso una lotta di classe – aspettiamo di vedere anche quello che accadrà in Libano - che richiede una solidarietà di classe. In Europa, purtroppo, il dibattito è deviato su alcuni dogmi considerati irreversibili e che da anni alimentano una guerra tra poveri da cui non si vede uscita. Non c’è nulla di irreversibile quando si parla di un sistema stato costruito per fare gli interessi di pochi contro il popolo. È giunto il momento di rompere il circolo vizioso, dopo anni di propaganda mediatica che ha fatto credere alle popolazioni europee che non ci sia alternativa alle barbarie del neo-liberismo. L’alternativa esiste e non è la guerra tra poveri che il capitale ha scelto per il futuro dell’Europa. Solo fuori dalla gabbia dell’euro e dell’Unione Europea è possibile un futuro in cui le classi subalterne di questo continente possono riscattarsi realmente.

Quali conseguenze potrà avere a livello geopolitico l’ebollizione attuale in America Latina?
Non dimentichiamo quello che sta accadendo in Siria e il ritiro progressivo degli Stati Uniti dopo anni di sconfitte dell’imperialismo nord-americano in quella regione. Attraversiamo davvero una fase decisiva per il futuro della geopolitica dei prossimi anni. 
La vera sfida non è militare ma, come scrivo da alcuni anni, monetaria. 
Trump non è lo stupido che vogliono far passare, è l’espressione del comparto monetario-finanziario e dell’industria petrolifera nord-americana. In quest’ottica, la guerra dei dazi è in realtà una guerra monetaria con l’obiettivo preciso di conservare al dollaro il suo ruolo di moneta internazionale sempre più a rischio. E’ sempre più chiaro come il controllo di una moneta indipendente – ad esempio una cripto-valuta – sarà pienamente decisiva per l’affermazione della sovranità e per l'indipendenza dei popoli. 
Nella guerra monetaria che si alimenterà sempre più nei prossimi mesi, Russia, Cina, Iran, Venezuela, Siria, Turchia e tutti i paesi che stanno cercando di costruire alternative al dollaro faranno sempre più cartello insieme. Del resto, le sanzioni occidentali non faranno altro che cementare e rafforzare quest’alleanza geopolitica.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-in_america_latina__in_corso_una_storica_lotta_di_classe_tra_capitale_e_lavoro/5496_31289/


lunedì 28 ottobre 2019

2019: FUGA DA SANTIAGO


In Cile è scoppiata la grande rivolta, si parla di un milione di manifestanti nelle piazze e nelle strade, il popolo si è svegliato e non molla, e quando tanti liberi cittadini scendono in campo per protestare contro un sistema sbagliato, violento ed ingiusto, è sempre un piacere appoggiare e raccontare queste mobilitazioni dal basso.
Siamo tutti vicini alla popolazione cilena, ai suoi bisogni e siamo contro il Presidente Piñera, novello dittatore, amico e sodale di Bolsonaro, di Trump e di tutte le nuove destre fascio-liberiste che sfruttano l'America Latina, attraverso Corporation locali, occidentali ed americane.
La repressione non ha aspettato a farsi sentire nel peggiore dei modi, si parla di di almeno 18 morti accertati, centinaia di feriti, donne stuprate ed uso della tortura verso manifestanti, studenti, giornalisti ed anche comuni cittadini.
Sumargui Vergara, una sociologa cilena sta testimoniando che la polizia cilena, impegnata in questi giorni nella repressione della protesta civile che ha messo a ferro e fuoco il paese, si sarebbe macchiata di crimini orribili tra cui anche la violenza sessuale delle donne detenute. "Stanno succedendo molte cose" ha detto Vergara, "le donne detenute hanno dichiarato di essere state violentate. Ma non ci sono registri, non possono difendersi perché è tutto irregolare. Con la scusa del coprifuoco arrestano chiunque, a qualsiasi ora".
Nelle ultime ore il Governo sembra voler fare una tregua, interrompendo il coprifuoco e lo stato di emergenza, ma bisogna capire se si tratta di una strategia per contenere il dissenso, o se la presenza di un milione di persone ha iniziato a sortire gli effetti desiderati.
L'America Latina è in fermento ed il Cile come anche l'Ecuador e la Bolivia sono pentole a pressione, vedremo se avranno la meglio le milizie governative e ci sarà un aggiornamento in termini più distopici e dispotici di quelle società, o se i popoli sfruttati potranno avere una storica occasione di riscatto sociale, economico e politico.
Per meglio raccontare la cronologia dei fatti, vi presento questo interessante ed esaustivo articolo, tratto da CONTROPIANO, sulla crisi cilena.
MDD

Cile: nos cansamos, nos unimos 
di Francesca Messineo *

Centinaia di migliaia di casseruole risuonano in tutto il Cile, sono il simbolo della rabbia, dell’indignazione e della resistenza di un intero popolo.
E’ dai tempi della dittatura che pentole, padelle e cucchiai vengono utilizzati per manifestare, pacificamente e rumorosamente, il proprio dissenso.
Ed è proprio in quei giorni che sembra di essere piombati quando si guardano le immagini che circolano sui social media. Un’escalation di violenza e repressione inaudita e ingiustificata, in un paese che fino a pochi giorni fa veniva definito, dallo stesso Presidente Piñera, come un’oasi di pace e di benessere nel panorama latinoamericano.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di chiarire quali sono le cause del malcontento sociale e di mettere in fila gli eventi di questi giorni.

Le ragioni della rivolta
Lunedì 7 ottobre viene annunciato un rincaro del trasporto pubblico a Santiago di circa 30 pesos per ogni corsa. Questo si somma a tanti altri rincari nei servizi di base (luce, acqua e gas) e soprattutto aggrava le condizioni di lavoratori poveri e indebitati, che non riescono ad arrivare a fine mese nonostante lavorino fino a 50 ore a settimana.
Il salario minimo è di circa 300mila pesos (370 euro) e quello medio di 400mila (495 euro), peccato però che il costo della vita per una famiglia nella capitale sia stato calcolato intorno ai 1.120.000 pesos (1386 euro). Il trasporto (spesa davvero irrinunciabile per tutti i lavoratori) può arrivare ad assorbire fino a un sesto dello stipendio di un lavoratore. Al costo già di per sé proibitivo del biglietto (circa 1 euro) si aggiunge il fatto che non sia prevista la possibilità di effettuare un abbonamento, questo perché l’azienda che gestisce il servizio (Transantiago) è una multinazionale più interessata a spostare i suoi utili all’estero che a rispondere alle esigenze dei beneficiari del servizio.
In questa situazione, le dichiarazioni del Ministro dell’Economia, che afferma che un lavoratore può “svegliarsi prima per usufruire delle tariffe ridotte previste nelle fasce orarie di minor afflusso”, sono la goccia che fa traboccare il vaso.

Lunedì 14 ottobre gli studenti delle scuole superiori si mobilitano, saltano i tornelli in massa e invitano tutti i passeggeri a fare lo stesso. Al grido di “evadir, no pagar, otra forma de luchar”, mettono in atto una forma di azione diretta largamente utilizzata dai loro coetanei durante la dittatura militare, che permette sanzionare e interrompere momentaneamente i flussi di produzione e sfruttamento della metropoli.
Giovedì la macchina della repressione si mette in moto, gli studenti sono inseguiti e manganellati dentro le stazioni della metropolitana. La tensione sociale sale velocemente. 
Alle rivendicazioni iniziali si somma il malcontento legato a un sistema scolastico privatizzato ed elitario, all’incapacità delle istituzione di farsi carico di una riforma costituzionale fortemente voluta dalla società civile (è ancora in vigore quella del 1980 redatta dal governo di Pinochet), al saccheggio delle risorse naturali in mano a pochissime imprese e famiglie, al collasso del sistema sanitario, agli scandali di corruzione tra politici, militari e poliziotti, a pensioni che non raggiungono i 250 euro.
Il sistema sociale cileno è una pentola a pressione pronta a esplodere, messo alla prova e portato allo stremo da decenni di selvaggia sperimentazione neoliberista. Le rivolte di questi giorni, lungi dall’essere un caso isolato, sono sintomatiche e rappresentative della profonda crisi politica e strutturale che attraversa il modello di sviluppo neoliberale in tanti altri paesi del mondo. In Cile questa dottrina economica è stata applicata nella sua forma più pura, senza costrizioni né limiti. E così, sebbene sia uno dei paesi Latinoamericano dove la crescita economica ancora regge (circa il 2,5%), le disuguaglianze socio-economiche che lo attraversano gli assicurano numerosi primati.

Il Cile l’unico paese al mondo dove l’acqua viene trattata come qualsiasi altro bene di mercato, l’1% più ricco della popolazione concentra il maggior numero di ricchezze (circa il 33%), 11 dei 18 milioni di abitanti sono indebitati, vanta il più alto tasso di interesse per i prestiti studenteschi (superiore all’8%), perfino le pensioni sono gestite tramite enti privati (AFP) e la gente fa la spesa al supermercato pagandola a rate.
A ciò si aggiunge una violenta repressione dei movimenti sociali. Dal 2011 gli studenti scendono in piazza contro il modello scolastico privatizzato ed elitario. L’anno passato i professori hanno marciato a piedi da Santiago a Valparaiso contro la proposta, divenuta legge, di abolire la storia dagli insegnamenti scolastici; i ragazzi e le ragazze in sciopero per la stessa causa sono picchiati e arrestati all’interno delle loro scuole. Le popolazioni indigene del Sud, i Mapuche, sono vittime di una guerra strisciante per l’accaparramento delle loro (ricchissime) terre che non si sa più quando sia iniziata. Diversi anche gli omicidi politici, i più noti sono quello di Macarena Valdés (2016) attivista per la salvaguardia dell’ambiente e di Alejandro Castro (2018) leader del movimento dei lavoratori portuari.

L’escalation della violenza
Simbolo dell’inizio della violenza è il sospetto incendio al palazzo dell’Enel nel centro della capitale. Come le reti sociali non mancano di far notare, il rivoltoso capace di tirare una molotov a tale altezza deve essere un campione olimpico visto che l’incendio divampa all’undicesimo piano!
La polizia attacca i manifestanti che iniziano ad alzare barricate, si verificano incendi e i primi atti di vandalismo, nel tardo pomeriggio comincia a circolare la voce di un possibile coprifuoco.
Sabato le strade sono gremite di persone, marce e presidi si diffondono a macchia d’olio, dai centri urbani ai villaggi di provincia. Agli studenti si uniscono i professori, i lavoratori della salute, i movimenti per il diritto all’abitare e quelli in difesa dell’ambiente, i portuali, le femministe e gli attivisti Mapuche, le manifestazioni sono ormai trasversali a tutti i settori della popolazione.
Da una parte, forme di protesta perlopiù pacifiche: danze per le strade, famiglie intere in piazza, musicisti che suonano negli autobus dati alle fiamme la notte precedente. Dall’altra, incendi, barricate e furti nei supermercati, eventi senza dubbio minoritari che in seguito è stato dimostrato essere molto spesso opera delle stesse forze dell’ordine.
Nel pomeriggio, il presidente Piñera, accompagnato dal Generale Iturriaga, dichiara lo stato di emergenza (della durata di 15 giorni e rinnovabile) ed un coprifuoco notturno nell’area metropolitana di Santiago. I militari scendono nelle strade e sono autorizzati a sparare. Una mossa politica permessa da una costituzione di stampo militarista che arroga grandi libertà al presidente. Questa mossa viene definita da più parti come un tentativo di “spegnere l’incendio del malcontento sociale versandoci sopra benzina”. Errore maldestro o strategia politica che sia il dado è tratto, indietro non si torna.
Già nel pomeriggio iniziano i caroselli dei blindati in mezzo ai manifestanti, pestaggi violenti a civili con le mani alzate, lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, detenzioni illegittime, nelle reti sociali già si comincia a parlare di morti. #EstoPasaEnChile e #ChileDespertó sono tra gli hashtag più seguiti.
La repressione arriva fin dentro le case private: i carabinieri entrano, spesso sparando lacrimogeni, e portano via le persone. La solidarietà è altissima, su WhatsApp circolano informazioni su punti di ristoro allestiti per i manifestanti nelle case.
La gente non crede alle sue orecchie e ai suoi occhi, un campanello comincia a trillare scuotendo la memoria storica e individuale del paese. Lo stato di emergenza e il coprifuoco segnarono l’inizio della dittatura militare del Generale Pinochet, quest’ultimo fu applicato per l’ultima volta nel 1987, e mai più in democrazia. I sequestri di persona lasciano semplicemente senza parole.
Il ricordo della dittatura è vicino, e brucia ancora. La gente è fermamente intenzionata a che la storia non si ripeta. Allo scoccare del coprifuoco, invece di rifugiarsi nelle proprie case, si riversa in massa per le strade. #ChileResiste e chi non se la sente di uscire fa rumore sbattendo pentole e padelle alle finestre, cacerolazos da dentro le mura domestiche, come negli anni settanta.
Poche ore dopo in parlamento viene revocato l’aumento al prezzo del biglietto. Ma la rabbia della società civile è ormai incontenibile, la democrazia si rivela una farsa non solo da un punto di vista economico ma anche politico e civile, la gente urla “no son 30 pesos, son 30 años”. Il paese è in fiamme e #RenunciaPiñera è uno dei trend più seguiti a livello mondiale. Nel frattempo, il Presidente impassibile si fa fotografare in un ristorante esclusivo a mangiare pizza con la sua famiglia.


La strategia del caos
A questo punto è evidente la strategia delle massime autorità pubbliche e delle forze di sicurezza: mandare in tilt il paese.
La militarizzazione dello spazio pubblico e la violenza creano un panico generalizzato auspicabilmente capace di dividere i manifestanti e neutralizzarne le rivendicazioni sociali. Molte stazioni della metropolitana, soprattutto quelle periferiche, vengono date alle fiamme, la mobilità dei cittadini è compromessa. I supermercati e negozi sono bruciati e saccheggiati, così la popolazione teme che la carenza di beni di consumo diventi strutturale. I bancomat vengono manomessi e le banche distrutte, impossibilitati a prelevare contanti, i cittadini comuni si sentono ancora più vulnerabili. Quartieri interi vengono lasciati senza luce o senza acqua corrente. Nel frattempo lo stato di emergenza viene allargato a molte altre città in tutto il paese ed arriverà a coprire l’80% del territorio nazionale.
La stampa compiacente gioca un ruolo fondamentale nell’alimentare questa retorica. I mezzi di comunicazione “tradizionali” si allineano alla narrativa di un esercito in difesa della sicurezza dei concittadini contro un manipolo di delinquenti. Le televisioni mostrano quasi esclusivamente immagini di devastazione o lunghe code fuori dai supermercati. Omettono sistematicamente di mostrare le piazze gremite di manifestanti pacifici o le violenze della polizia.
I media indipendenti sono pesantemente criminalizzati: diversi giornalisti vengono arrestati illegalmente, subiscono pestaggi, sono colpiti da lacrimogeni a distanze ravvicinate. Inoltre sussiste il problema dei salvacondotti necessari per continuare a lavorare durante il coprifuoco, i commissariati che dovrebbero rilasciarli sono sempre chiusi.

Le notizie girano sui social networks, che diventano strumento di informazione non solo legittimo, ma oggettivo. Si stilano liste di radio e giornali amici da diffondere fuori e dentro il paese, su Twitter viene lanciato l’hashtag #LaPrensaMiente.
Moltissimi video dimostrano, senza lasciar adito ad alcun dubbio, come buona parte degli atti di vandalismo siano opera della polizia, azioni costruite ad hoc per giustificare la repressione. Poliziotti che appiccano incendi nei supermercati e nelle metro, saccheggiano i mercati rionali, divelgono serrande e poi incitano gruppi di poverissimi a rubare ordinatamente gli articoli che preferiscono. Gli infiltrati sono ovunque. Documentati anche i montaggi messi a punto da alcuni canali televisivi. La società civile cerca di autorganizzarsi, gruppi di vicini e manifestanti vigilano sullo spazio pubblico e le proprietà dei privati nel totale disinteresse delle forze dell’ordine.

Come in un incubo
Domenica il presidente dichiara di essere “in guerra contro un nemico potente e implacabile, che non rispetta nessuno ed è disposto ad usare la violenza senza alcuna riserva”. Adesso la furia ceca dei militari non ha più freni. La società civile risponde con la campagna #NoEstamosEnGuerra.
Le immagini sono macabre e lascio a ciascuno decidere se guardarle o no. Pestaggi a manifestanti pacifici, donne e minori, fucili da guerra puntati sui pompieri, corpi inermi trascinati per la strada o gettati dalle camionette in corsa, mitra puntati alla testa di persone che magari per pochi minuti non hanno fatto in tempo a raggiungere le loro case prima dello scattare del coprifuoco, spari ad altezza uomo, feriti da arma da fuoco, persone dissanguate per la strada, una donna ritrovata morta appesa ad un cancello. Le immagini più inquietanti mostrano le forze armate che di notte rimuovono dei corpi da un luogo isolato per portarli non si sa dove. Molte le testimonianze di tortura e di violenza sessuale, mercoledì l‘INDH (Istituto Nazionale Diritti Umani) identifica un centro adibito a questo scopo in una centralissima stazione della metropolitana a Santiago.
Si contano i morti e i desaparecidos, le stime ufficiali si fermano ai corpi carbonizzati nei grandi incendi e ai morti per arma da fuoco. Per la gente sono decine le persone che mancano all’appello. “L’incubo dei nostri genitori è diventato il nostro” mi dicono. Quando una persona viene portata dai militari urla nome e numero del documento di identità.
Su Twitter si parla di #DerechosUmanosEnChile e di #PineraDictator. Con un certo ritardo, martedì anche l’ex Presidente Bachelet, Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, si dichiara preoccupata per l’eccessivo uso della forza e chiede indagini indipendenti sulla morte dei civili. Mercoledì annuncia che invierà degli osservatori internazionali. Si scatena un dibattito tra la CIDH (Commissione Interamericana per i Diritti Umani) e l’INDH sui numeri della violenza. Quest’ultima apre diverse azioni giudiziarie. L’ordine dei medici denuncia di aver subito intimidazioni per impedirgli di diffondere informazioni in loro possesso.
Una cosa è certa, ci sono state decine di morti (i manifestanti ne contano più di 40), diversi casi di violenza sessuale, centinaia di feriti di cui molti da arma da fuoco, molti desaparecidos, migliaia di arresti (di cui un rilevante numero di minori) e torture.
L’appoggio ai manifestanti non cala, si condanna la violenza gratuita ma ricorre il pensiero che se trenta anni di manifestazioni pacifiche non hanno portato a niente, l’unica soluzione è tenere la testa alta di fronte alla violenza della repressione.
“I militari nelle strade stanno cercando di coprire il sole con un dito” così un’amica riassume la situazione. Mi chiedo come possano sopportare tutto questo. La loro risposta è racchiusa in uno degli slogan più rappresentativi di queste giornate: “Nos quitaron tanto que nos quitaron hasta el miedo”.


Lo sciopero nazionale e gli ultimi sviluppi
Da lunedì è in corso uno sciopero nazionale, convocato dagli studenti a cui velocemente hanno aderito oltre 20 sigle sindacali, i cortei in giro per il paese si sono moltiplicati. Gli insegnanti, i lavoratori della salute e i portuali sfilano in tutto il paese. Una ventina di porti, la più grande miniera del mondo e tutte le università sono chiuse. I camionisti bloccano le principali arterie stradali. I sindacati invitano i lavoratori a incrociare le braccia proprio in nome dello stato di emergenza, che autorizza il lavoratore che teme per la propria incolumità a non recarsi al lavoro.
La mobilitazione durerà sicuramente fino a venerdì ma l’intenzione sembra quella di resistere a oltranza. La società civile e i sindacati invocano lo sciopero parlamentare e chiedono la revoca dello stato di emergenza, del coprifuoco e il ritorno dei militari nelle caserme come condizione minima per instaurare un dialogo.
A nulla sembra essere servita la nuova proposta di legge presentata mercoledì da un Piñera definito dalla stampa internazionale come sommesso e dispiaciuto. Un pacchetto finanziario da diversi milioni di dollari che prevede un aumento del 20% delle pensioni minime, aumento dei salari minimi di 50.000 pesos (62 euro), promesse su imposte addizionali all’1% più ricco della popolazione, taglio dei costi della politica e dei farmaci. Inutile anche la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali.
I partiti storici della vecchia concertazione (centro-sinistra) Democrazia Cristiana, Partito Per la Democrazia e Partito Radicale e in parte anche il Partito Socialista accettano le proposte di Piñera e chiamano all’unità nazionale. Fruente Amplio e il Partito Comunista rifiutano di intavolare una trattativa senza il ritiro immediato dei militari.
Tra la gente queste misure sono viste come il vano tentativo di un uomo sconfitto e arrabbiato di uscire da una crisi che forse gli è scappata di mano. Piñera vuole salvare faccia, “onore” e poltrona. Difende fino all’ultimo le scelte politiche di repressione e terrore sociale, non fa menzione della riforma costituzionale, non mette in discussione né il modello economico né il sistema sussidiario di erogazione dei servizi di base. Le misure menzionate nella manovra sono definite insufficienti e palliative dalle organizzazioni sindacali. Le pensioni sociali sono così basse che l’aumento significherà circa 20.000 pesos (25 euro) in più al mese, l’AFP non viene toccata, gli aumenti dei salari minimi verranno coperti con un fondo statale e lasceranno intatti i margini di profitto delle imprese.
Giovedì la Commissione Diritti Umani, Nazionalità e Cittadinanza presenta un esposto in parlamento in cui denuncia l’incostituzionalità dello stato di emergenza dovuta alla mancata delega ufficiale del Presidente agli alti funzionari dell’esercito, a limitazioni dei diritti civili non previste costituzionalmente e alla presenza di riferimenti normativi ad articoli di legge precedentemente abrogati.
Oltre ogni dibattito parlamentare, il popolo vuole le dimissioni del presidente cha ha giocato a fare il dittatore e anche quelle del Ministro degli Interni Chadwick, ex-esponente di rilievo della dittatura militare che forse non ha saputo resistere alla tentazione di rievocare i suoi giorni da leone. Le mobilitazioni continuano, i fatti di questi giorni hanno creato una frattura nella società cilena che sarà difficile da colmare. L’inganno è smascherato: la violenza della repressione, la permeabilità del limite tra stato di diritto e stato di terrore segneranno per anni a venire il dibattito pubblico nazionale e auspicabilmente porteranno il paese alla tanto agognata assemblea costituente.

P.S. La maggior parte dei dati numerici utilizzati per questo articolo provengono dalla Fundación Sol
* da Q Code
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/10/26/cile-nos-cansamos-nos-unimos-0120097



giovedì 17 ottobre 2019

LA NATO DIETRO L'ATTACCO TURCO IN SIRIA



Non è affatto da sottovalutare la guerra che la NATO sta favorendo, tramite il Fratello Erdogan, per consolidare il Nuovo Ordine Mondiale, paradigma che non tollera esempi di autegestione come quello dei curdi, utili fino all'altro ieri contro le milizie dell'ISIS, oggi vigliaccamente e vergognosamente scaricati da Trump e dalla NATO stessa. La Turchia in fondo non ha tutte le colpe, persegue anche lei gli stessi interessi nazionalisti che la NATO, in termini più ampi, persegue contro tutti coloro che non rientrano nei piani stabiliti. Diciamolo, a molto fa comodo questa guerra contro i curdi, piace all'europa che vende armi alla Turchia e fa affari miliardari da decine di anni, va bene agli USA che non hanno per ora più nessun interesse a difenderli, piace a certi paesi arabi, ma, soprattutto, piace a chi desidera ridisegnare la geopolitica internazionale del medioriente.
Vi presento due interessanti articoli che in modo diverso parlano del backoffice del potere e delle ragioni di questo conflitto.

Il sistema di difesa italo-francese è già in Turchia (Il Manifesto):
di Manlio Dinucci  
Germania, Francia, Italia e altri paesi, che in veste di membri della Ue condannano la Turchia per l’attacco in Siria, sono insieme alla Turchia membri della Nato, la quale, mentre era già in corso l’attacco, ha ribadito il suo sostegno ad Ankara. Lo ha fatto ufficialmente il segretario generale della Nato Jean Stoltenberg, incontrando l’11 ottobre in Turchia il presidente Erdoğan e il ministro degli esteri Çavuşoğlu.
«La Turchia è in prima linea in questa regione molto volatile, nessun altro Alleato ha subito più attacchi terroristici della Turchia, nessun altro è più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal Medioriente», ha esordito Stoltenberg, riconoscendo che la Turchia ha «legittime preoccupazioni per la propria sicurezza».
Dopo averle diplomaticamente consigliato di «agire con moderazione», Stoltenberg ha sottolineato che la Turchia è «un forte Alleato Nato, importante per la nostra difesa collettiva», e che la Nato è «fortemente impegnata a difendere la sua sicurezza».

A tal fine – ha specificato – la Nato ha accresciuto la sua presenza aerea e navale in Turchia e vi ha investito oltre 5 miliardi di dollari in basi e infrastrutture militari. Oltre a queste, vi ha dislocato un importante comando: il LandCom, responsabile del coordinamento di tutte le forze terrestri dell’Alleanza
Stoltenberg ha evidenziato l’importanza dei «sistemi di difesa missilistica» dispiegati dalla Nato per «proteggere il confine meridionale della Turchia», forniti a rotazione dagli Alleati. A tale proposito il ministro degli esteri Çavuşoğlu ha ringraziato in particolare l’Italia. E’ dal giugno 2016 che l’Italia ha dispiegato nella provincia turca sudorientale di Kahramanmaraş il «sistema di difesa aerea» Samp-T, coprodotto con la Francia.

Una unità Samp-T comprende un veicolo di comando e controllo e sei veicoli lanciatori armati ciascuno di otto missili. Situati a ridosso della Siria, essi possono abbattere qualsiasi velivolo all’interno dello spazio aereo siriano. La loro funzione, quindi, è tutt’altro che difensiva.
Lo scorso luglio la Camera e il Senato, in base a quanto deciso dalle commissioni estere congiunte, hanno deliberato di estendere fino al 31 dicembre la presenza dell’unità missilistica italiana in Turchia.
Stoltenberg ha inoltre informato che sono in corso colloqui tra Italia e Francia, coproduttrici del sistema missilistico Samp-T, e la Turchia che lo vuole acquistare.
A questo punto, in base al decreto annunciato dal ministro degli Esteri Di Maio di bloccare l’export di armamenti verso la Turchia, l’Italia dovrebbe ritirare immediatamente il sistema missilistico Samp-T dal territorio turco e impegnarsi a non venderlo alla Turchia.
Continua così il tragico teatrino della politica, mentre in Siria continua a scorrere sangue.
Coloro che oggi inorridiscono di fronte alle nuove stragi e chiedono di bloccare l’export di armi alla Turchia, sono gli stessi che voltavano la testa dall’altra parte quando lo stesso New York Times pubblicava una dettagliata inchiesta sulla rete Cia attraverso cui arrivavano in Turchia, anche dalla Croazia, fiumi di armi per la guerra coperta in Siria (Il manifesto, 27 marzo 2013).
Dopo aver demolito la Federazione Jugoslava e la Libia, la Nato tentava la stessa operazione in Siria. La forza d’urto era costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi.
Essi affluivano nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia aveva aperto centri di formazione militare. Il comando delle operazioni era a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta.
Tutto questo viene cancellato e la Turchia viene presentata dal segretario generale della Nato come l’Alleato «più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal Medioriente».


La Turchia all’attacco dei curdi con il secondo esercito Nato (Il Sole 24ore):
di Roberto Bongiorni
La sfida è impari. E a meno che non entrino in gioco nuovi attori,l’esito appare scontato. Il confronto militare tra il potente esercito turco e le male armate milizie curdo-siriane, le Ypg, appare come la lotta di Davide contro Golia. Nella quale però Davide non sembra disporre nemmeno della fionda.
Moderni elicotteri da combattimento, caccia, sistemi radar all’avanguardia, carri armati di nuova generazione. E una delle fanterie più grandi al mondo. Quello turco è il secondo esercito della Nato (su 29 Paesi membri), e non solo per numero di effettivi (circa 400mila). 
Le milizie Ypg non hanno certo l’aviazione, né i carri armati di ultima generazione, tanto meno sistemi radar all’altezza della situazione. «Non abbiamo a disposizione armi pesanti che potrebbero essere utili contro l’aviazione o i carri armati turchi», ha confermato ieri una fonte delle Ypg alla Reuters.
Non sono nemmeno così numerosi, circa 35mila quelli inquadrati nelle Syrian Democratic Forces (Sdf), la coalizione multi-etnica di 40mila uomini voluta dagli Stati Uniti per fronteggiare l’Isis. Certo, dalla loro parte c’è il fatto di conoscere il loro territorio, le loro montagne, ma poco di più.

Il precedente di Afrin parla chiaro. «Ramoscello d’ulivo», la seconda campagna militare contro le Ypg, scattata nel gennaio 2018, è stata davvero rapida. In meno di due mesi le forze turche sono riuscite ad prendere possesso di uno dei tre cantoni di cui è composto il Rojava, quel Kurdistan siriano che dal 2011 è amministrato in totale autonomia dai curdi (per quanto Damasco non lo riconosca.)
Il maggior freno al successo della nuova operazione turca non è rappresentato dal potenziale bellico del nemico quanto dall’impatto sull’economia. Proprio ieri il ministero del Tesoro turco ha precisato che non vede alcun impatto negativo di lungo termine dalla campagna militare in corso, eppure la lira turca ha subito una decisa flessione nei confronti del dollaro, la più alta da agosto.
Certo, il costo dell’ultima guerra di Erdogan è difficile da valutare. Dipenderà dalla durata, dagli sforzi bellici che saranno messi in campo, dal tipo di armi utilizzate. Crisi o crescita, Erdogan ha sempre fatto della Difesa una priorità. Come spiega al Sole 24 Ore Pieter D. Wezeman, analista dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), anno dopo anno la Turchia, che detiene il 15simo esercito del mondo, sta accrescendo la sua spesa militare. 
E ciò nonostante la perdurante incertezza economica. «Nel 2018 – spiega Wezeman - il Governo turco ha destinato 19 miliardi alle spese militari. Occorre fare attenzione non solo al dato assoluto ma al trend. Dal 2017 l’incremento è stato davvero consistente. E comunque dal 2009 ad oggi le spese militari turche sono aumentate del 65 per cento. Più della Francia, più del Regno Unito, più della Germania».
Certo, quando si parla di spese militari, nessuno si avvicina agli Stati Uniti. Nel 2018 Trump le ha aumentate di 49 miliardi di dollari, portandole complessivamente a 649 miliardi (più di un terzo della spesa globale).

A frenare l’appetito bellico di Erdogan, reduce da una débâcle nelle ultime elezioni amministrative, è il rischio di un ulteriore rallentamento dell’economia. 
Che potrebbe essere esacerbato dal potenziale pacchetto di sanzioni a cui sta lavorando un gruppo di senatori del Congresso. Se dovessero passare, dovrebbero scattare nel caso in cui la Turchia continuasse la sua offensiva. Già in luglio gli Usa stavano valutando un round di sanzioni contro il Governo turco. In quel caso la ragione era stata l’arrivo in Turchia dei primi componenti del sistema di difesa aerea S-400 di fabbricazione russa.
Il Pentagono intende estromettere Ankara dai contratti relativi alla componentistica degli ultra-moderni F-35 e sospenderà le consegne dei cacciabombardieri già ordinati. 
Il timore che i sofisticati radar del sistema S-400 possano catturare informazioni sensibili ha prevalso su tutto. «Gli Usa non forniranno i programmi manifatturieri degli F-35 - continua Wezeman - e potrebbero valutare di limitare l’export di altri armamenti. 
L’analista dell’Ispi conclude aggiungendo un altro elemento che potrebbe mettere in difficoltà Erdogan. «C’era un accordo tra Germania e Turchia che vietava l’uso dei carri armati tedeschi nella campagna contro i curdi, e che contemplava la sospensione delle forniture se ciò fosse accaduto». Altri Paesi starebbero seguendo l’iniziativa tedesca. «Francia e Italia stanno invece continuando a fornire armi all’esercito turco che potrebbero essere utilizzate in questa guerra. Come gli elicotteri italiani da combattimento Mangusta. 
Ma non è escluso che possano prendere provvedimenti».
Insomma, il “sultano” Erdogan sembra determinato ad andare avanti. Ma il conto della sua nuova avventura militare rischia di essere salato.






lunedì 7 ottobre 2019

LA DEMOCRAZIA DIRETTA E' UNA CONTRADDIZIONE IN TERMINI


Il marito: BASTA, SONO PER LA DEMOCRAZIA DIRETTA...
La moglie: DIRETTA DA CHI??? E DOVE???
cit. Altan

Sono paradigmi culturali preparatori al nuovo ordine mondiale, al modello transumanista e sono fortemente reazionari. La dittatura, scalzata dalla democrazia, rientra dalla porta di servizio, facendosi accettare e veicolandosi come soluzione di una società più orizzontale.
cit. MDD


La democrazia diretta è una forma di governo democratica nella quale i cittadini possono, senza alcuna intermediazione o rappresentanza politica, esercitare direttamente il potere legislativo.
Sembra tutto meraviglioso, ma allora dove è la fregatura?
La fregatura consiste proprio nell'apparente ed illusorio paradigma della libertà di esercitare direttamente il potere legislativo, come se il popolo, concetto astratto e variegato, avesse la capacità, la saggezza e la lungimiranza di scegliere il bene in quanto maggioranza silenziosa, ma ugualmente sempre più manipolata dalle attuali e future tecnologie, mass media e mode del momento.
Purtroppo un popolo senza coscienza di classe, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, potrebbe essere manipolato dallo stesso potere che gli conferisce questa possibilità di riscatto, e quindi fare scelte che premiano la reazione, il populismo, la divisione ed il vantaggio individualistico. Pensare di saltare la rappresentanza popolare è un concetto come minimo ingenuo e stolto, per non dire falso, cinico dello stesso sistema di sempre, che più semplicemente userà le nuove tecnologie per omologare ed indirizzare il pensiero verso modelli preconfezionati, da scegliere liberamente.
Un po' come fare "liberamente" un puzzle, e non costruirne uno nuovo con la propria creatività, oppure scegliere come affrontare una battaglia in un videogioco, quale strada intraprendere tra tutte (poche) quelle prestabilite dall'architetto digitale.
Pensate per esempio in un contesto liberista quante scelte potremmo avere, quali scelte. Quali?
Quelle di mettere in discussione un sistema economico che non può essere messo in discussione per natura, essendo considerato il migliore dei mondi?
Se l'opinione pubblica venisse manipolata a dovere, e spesso accade che la propaganda di qualsiasi modello politico culturale incida massivamente nella psicologia di massa, la prima cosa che sarebbe votata sarebbe la pena di morte, la militarizzazione del territorio e tante altre belle cose che vanno nella direzione distopica dell'attuale assetto della sovragestione liberista, che non vede l'ora di mettere in crisi ciò che di realmente democratico ed orizzontale esiste ancora oggi nelle società occidentali.
Potrebbe mettere in discussione il proprio sistema economico?
No, perché metterebbe in crisi lo status quo, che non permetterebbe questo cambiamento, fosse altro che per la sua sopravvivenza.
Potrebbe incidere sui diritti civili?
No, senza una guida illuminata, premierebbe la conservazione, la tradizione e la forma familiare tradizionale patriarcale, altro che diritti civili.
Potrebbe almeno fare scelte sull'ambiente, sulla sanità, sugli OGM, sulle radiofrequenze, sui vaccini?
Assolutamente no, perché ci sono altri poteri che gestiscono queste faccende.
Cosa potrebbe fare di buono allora?
Potrebbe scegliere il proprio carceriere, forse potrebbe scegliersi quello più simpatico, il cosiddetto sbirro buono, ma si dovrebbe accontentare di poca cosa.
Avrebbe, quella si, l'illusione di aver creato il proprio governo popolare, si sentirebbe responsabilizzato ad essere il kapo' di se stesso, o di aver la possibilità di scegliere quale detersivo usare per pulire la propria prigione.
Una popolazione non alfabetizzata, senza coscienza di classe, senza nessun tipo di evoluzione spirituale (che non è quella religiosa, ma semmai il contrario), non farebbe altro che confermare il suo status di suddito, però responsabile, che si autocertifica tale, contento finalmente di esserlo.
Una fregatura al cubo salutata come manna dal cielo, e ben sappiamo che tutti coloro che si sono rivolti all'emancipazione dei popoli hanno creato i presupposti per i loro inferni in terra, la storia insegna.

Concludo l'analisi pubblicando un post dell'amico Riccardo Paccosi, perchè riassume perfettamente la critica al paradigma modernista della Democrazia Diretta, salutata e decantata come quella forma politica del futuro che salverà il mondo. Su alcuni aspetti la pensiamo diversamente, io ho una visione più anarchica e lui più marxista, ma credo sia un'integrazione degna di nota.
Chi non vorrebbe una Democrazia Diretta?
I nostalgici passatisti che rimpiangono la prima Repubblica?
I cittadini che non amano cambiamenti e responsabilità?
Le elite che vogliono procrastinare all'infinito le vecchie forme di governo, aggiornandosi?
Oppure, dietro a questo cambiamento potrebbe celarsi l'ennesima manipolazione?
Io credo di si, e Riccardo ce lo spiega in termini chiari ed esaustivi.

di Riccardo Paccosi:
- Ho cominciato a rendermi conto del fatto che la democrazia diretta fosse una contraddizione in termini, quando ancora militavo nell'area dei centri sociali, dunque più di quindici anni fa.
Dopo vent'anni e passa trascorsi a fare assemblee su assemblee, dovetti prendere atto del fatto che in quei consessi movimentisti si determinava una gerarchia più stringente che altrove, solo che era una gerarchia informale. Inoltre, il singolo che faceva fatica a parlare in pubblico (il che non era un mio problema), non aveva alcuna garanzia d'influire sulle scelte.
La verità è che la democrazia di delega consente di coalizzare una collettività che, eleggendo un proprio rappresentante, esprime così un pieno ed effettivo potere collettivo.
La democrazia diretta, invece, prevede che il campo politico sia attraversato esclusivamente da singoli individui. E laddove non c'è forza di coalizione dei molti, laddove gli interessi del singolo non si articolano nella comunanza degli interessi di classe, laddove non si esprime soggettività collettiva ma solo individuale, non può esserci potere popolare e dunque non può esserci demo-crazia.
Dunque, si può dire che la democrazia diretta sia una contraddizione in termini.
Nel dire questo, metto però fra parentesi le sperimentazioni consiliariste del secolo scorso, i soviet e altre esperienze analoghe: mi riferisco, in quest'intervento, solo a quella democrazia diretta ch'è stata propugnata dal '68 in poi, ovvero da quando le istanze di emancipazione proletaria hanno cominciato a contaminarsi col rifiuto piccolo-borghese della mediazione e delle organizzazioni di massa.
Dunque, il problema del M5S non risiede tanto nella mendacità dello slogan "uno vale uno", quanto nella natura profondamente neoliberale di un principio di democrazia diretta che nega, all'atto pratico, tutte le forme di reale ed effettivo - ancorché relativo - potere popolare materializzatesi finora nella storia.