Introduzione:
Non c'è mai fine al peggio. Tu pensi di aver toccato il fondo, invece, scopri che puoi scavare nella fossa sempre più. Il destino dei lavoratori occidentali non è affatto roseo, si prospettano anni difficili ed autunni caldi, ma non si capisce come potrebbe migliorare la situazione in un sistema chiuso ed immutabile come il nostro, dove il neoliberismo comanda su tutto e la politica ha solo un ruolo ancillare.
Proprio ora che il Re era nudo, che avevamo la possibilità di vederne svelate le oscene nudità tramite la tecnologia di massa, proprio ora che sarebbe potuta nascere una maggiore coscienza di classe, una consapevolezza, in parte cresciuta, il grande Moloch si è attivato per debilitare il nostro organismo ed il nostro spirito, annichilendoci ieri con una pandemia, oggi con una guerra, domani con un'altra emergenza, e nel mentre, sfilandoci gli ultimi spicci dal borsello.
In Italia non solo abbiamo tra gli stipendi più bassi in assoluto, rispetto al costo della vita, ma dopo anni di mancati rinnovi salariali, oggi abbiamo conosciuto una triste novità, proprio perché non c'è mai fine al peggio, e questa realtà è rappresentata dal taglio dei salari dei lavoratori.
Il sistema neoliberista spinge l'acceleratore e non vuol frenare neanche davanti ad un muro di cemento armato, tanto si schianta qualcun altro.
Per capire cosa sta succedendo, vi riporto questo articolo esaustivo pubblicato sul FATTO QUOTIDIANO di Ignazio Corrao.
“Se ne è tornato a discutere e per gli addetti ai lavori non è una sorpresa, ma per i lavoratori italiani vedere plasticamente che il proprio Paese è l’unico in Unione Europea in cui i salari sono diminuiti rispetto a 30 anni fa è l’ennesima amarissima beffa. Una beffa che viene accompagnata dall’assenza di un salario minimo, tema a cui gran parte della politica nostrana continua colpevolmente a far orecchie da mercante.
Il nostro Paese fa parte del G7 e viene visto nel mondo come una delle economie più avanzate: mi viene da chiedermi come staremmo se non fossimo considerati tali.L’Italia è ferma al palo e mentre i soliti noti attaccano il reddito di cittadinanza per la mancanza di lavoratori (in particolare quelli stagionali) è sempre più evidente che una parte degli imprenditori, in prima linea nell’accusare i presunti giovani fannulloni, da noi pretendono il diritto di pagare salari che somigliano più allo sfruttamento che al compenso per lavoro dipendente. Salari da fame a cospetto di orari e mansioni variabili, definiti “flessibili” a seconda delle necessità, dell’imprenditore di turno si intende.
Inutile girarci intorno, l’Italia è arrivata al punto dove la domanda e l’offerta non si incontrano più.
Inutile girarci intorno, l’Italia è arrivata al punto dove la domanda e l’offerta non si incontrano più.
I motivi sono tantissimi e le colpe sono diffuse, ma è triste assistere all’arroganza di una parte considerevole dell’industria e dell’imprenditoria italiana che vede solo il profitto personale a scapito del benessere e dei diritti della comunità lavorativa, a cui consegue la crescita dell’intero Pese e il anche il benessere loro, che fanno parte di una comunità che spende parecchi denari per formare professionalità che poi vanno a generare ricchezza e futuro in altri Paesi.
Come la crisi ci ha insegnato, non c’è lavoro che non merita rispetto e riconoscimento, penso solo al ruolo del cassiere del supermercato, dell’autotrasportatore o dell’infermiere, che durante la pandemia erano issati a simbolo di continuità della nostra società. Quale è il loro stipendio medio? Intorno ai 1300 euro, cifre con cui in città come Milano o Roma devi fare una lotta per la sopravvivenza.
La crisi pandemica ha portato anche altro, ad esempio il fenomeno delle grande dimissioni (big quit). Secondo le cifre del ministero del Lavoro, quasi 500.000 licenziamenti volontari sono avvenuti nel secondo semestre del 2021, ovvero l’85% in più rispetto al 2020. Un fenomeno sociale ed economico dalla portata considerevole, più comune soprattutto tra Millennials e Generazione Z del nord Italia. La tendenza a cambiare lavoro era già aumentata nel corso degli ultimi anni, ma la ragione principale era la ricerca di un miglioramento economico. Oggi, invece, stiamo assistendo ad un fenomeno mai visto prima, strettamente legato alla situazione pandemica. Le motivazioni che stanno dietro alle Grandi Dimissioni sono connesse alla diffusione di una nuova prospettiva nei confronti del concetto stesso di lavoro. Due matrici che la vetusta Confindustria e la politica italiana non riescono ancora a decifrare.
Il salario minimo più che la prima soluzione è una impellente necessità, legato al sempre crescente costo della vita e al bisogno di equilibrio tra lavoro e vita privata che dopo la pandemia risulta elemento imprescindibile per riallineare offerta e domanda.
Negli ultimi due anni, nonostante la pandemia, lo stipendio base è cresciuto in 19 Paesi europei. L’Italia, assieme ad altri cinque Stati Ue, fa invece parte del piccolo gruppo di Paesi che non prevedono un salario minimo.
Negli ultimi mesi il tasso di inflazione in Europa ha raggiunto il valore medio annuo del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei salari è stato del +3%: ne consegue la riduzione del potere d’acquisto di 4,5 punti.
Ad esempio chi si annovera nella categoria dei paesi economicamente sviluppati, tra cui dovrebbe esserci l’Italia, contano sulla busta paga di base più di 1.500 euro al mese. Si tratta di Francia (1.603 euro), Germania (1.621 euro), Belgio (1.658 euro), Paesi Bassi (1.725 euro), Irlanda (1.775 euro) e Lussemburgo (2.257 euro). Il salario minimo resta di poco superiore ai mille euro al mese anche in Slovenia (1.074 euro) e Spagna (1.126 euro). In 13 Paesi, soprattutto dell’Est Europa, la busta paga minima resta invece più leggera, ma in forte crescita rispetto ai parametri precedenti.
È interessante notare le differenze, riguardo alle proposte che sono state messe in campo per affrontare questo spinoso tema economico.
Come la crisi ci ha insegnato, non c’è lavoro che non merita rispetto e riconoscimento, penso solo al ruolo del cassiere del supermercato, dell’autotrasportatore o dell’infermiere, che durante la pandemia erano issati a simbolo di continuità della nostra società. Quale è il loro stipendio medio? Intorno ai 1300 euro, cifre con cui in città come Milano o Roma devi fare una lotta per la sopravvivenza.
La crisi pandemica ha portato anche altro, ad esempio il fenomeno delle grande dimissioni (big quit). Secondo le cifre del ministero del Lavoro, quasi 500.000 licenziamenti volontari sono avvenuti nel secondo semestre del 2021, ovvero l’85% in più rispetto al 2020. Un fenomeno sociale ed economico dalla portata considerevole, più comune soprattutto tra Millennials e Generazione Z del nord Italia. La tendenza a cambiare lavoro era già aumentata nel corso degli ultimi anni, ma la ragione principale era la ricerca di un miglioramento economico. Oggi, invece, stiamo assistendo ad un fenomeno mai visto prima, strettamente legato alla situazione pandemica. Le motivazioni che stanno dietro alle Grandi Dimissioni sono connesse alla diffusione di una nuova prospettiva nei confronti del concetto stesso di lavoro. Due matrici che la vetusta Confindustria e la politica italiana non riescono ancora a decifrare.
Il salario minimo più che la prima soluzione è una impellente necessità, legato al sempre crescente costo della vita e al bisogno di equilibrio tra lavoro e vita privata che dopo la pandemia risulta elemento imprescindibile per riallineare offerta e domanda.
Negli ultimi due anni, nonostante la pandemia, lo stipendio base è cresciuto in 19 Paesi europei. L’Italia, assieme ad altri cinque Stati Ue, fa invece parte del piccolo gruppo di Paesi che non prevedono un salario minimo.
Negli ultimi mesi il tasso di inflazione in Europa ha raggiunto il valore medio annuo del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei salari è stato del +3%: ne consegue la riduzione del potere d’acquisto di 4,5 punti.
Ad esempio chi si annovera nella categoria dei paesi economicamente sviluppati, tra cui dovrebbe esserci l’Italia, contano sulla busta paga di base più di 1.500 euro al mese. Si tratta di Francia (1.603 euro), Germania (1.621 euro), Belgio (1.658 euro), Paesi Bassi (1.725 euro), Irlanda (1.775 euro) e Lussemburgo (2.257 euro). Il salario minimo resta di poco superiore ai mille euro al mese anche in Slovenia (1.074 euro) e Spagna (1.126 euro). In 13 Paesi, soprattutto dell’Est Europa, la busta paga minima resta invece più leggera, ma in forte crescita rispetto ai parametri precedenti.
È interessante notare le differenze, riguardo alle proposte che sono state messe in campo per affrontare questo spinoso tema economico.
In Francia nel 2021 il salario minimo è aumentato per ben tre volte (complessivamente del 5,9%) e i sindacati si sono posti l’obiettivo di arrivare a duemila euro al mese. In Spagna il salario minimo ha raggiunto i 1000 euro al mese per 14 mensilità. Il sindacato in Portogallo ha chiesto di aumentare il salario da 705 euro a 800 euro al mese. In Germania, il sindacato IG Metall sta cercando di ottenere per gli 85mila lavoratori delle acciaierie un aumento salariale dell’8,2%. Gli impiegati del settore chimico-farmaceutico hanno già ottenuto un bonus una tantum di 1400 euro.
A fronte di un salario minimo che diventa sempre più comune nel mercato del lavoro Ue, a fare eccezione sono rimasti solo sei Paesi: Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Tuttavia, fa notare Eurofound, “l’Austria è uno dei pochi Paesi con aumenti salariali concordati collettivamente ben documentati, che riflettono l’impatto variabile della pandemia su diversi settori”. Ad esempio nel settore dei servizi di trasporto, nel 2021 è stato negoziato un accordo triennale che prevede un forte aumento salariale del 4,5 per cento a partire dal primo gennaio 2022 e anche gli addetti alle pulizie vedranno un aumento del 3,5 per cento nel loro salario minimo”.
Anche in Finlandia si prevede che “la pressione per aumentare i salari degli infermieri influirà sulle prossime tornate di contrattazione” portando a una ricompensa in busta paga per i lavoratori più esposti alla crisi pandemica.
In Danimarca il sindacato FNV sta cercando di far aumentare il salario minimo da 10 a 14 euro l’ora. In Lussemburgo e a Cipro i salari sono agganciati all’inflazione. Mentre in Italia la scala mobile è stata abolita trent’anni fa (1992, Governo Amato).
L’atteggiamento italiano sul salario minimo è una anomalia nel contesto europeo, a cui la politica e le imprese rispondono con un insensato “j’accuse” al reddito di cittadinanza, capro espiratorio di tutti i mali. Mentre l’Europa ci bacchetta, il tema salariale continua a non essere oggetto di discussione e gli impegni presi da partiti e sindacati sono rimasti mere intenzioni. Questa indolenza nel frattempo si traduce in un preoccupante calo del potere d’acquisto dei lavoratori che tocca soprattutto i giovani.
Un’altra triste classifica relega agli ultimi posti gli stipendi medi dei giovani italiani (18-24 anni) Secondo l’istituto di statistica dell’Unione, lo stipendio medio in Italia per la fascia 18-24 anni è di 15.858 euro, vicino alla media Ue di 16.825. Il confronto è impietoso, però, se si paragona il nostro Paese con altri dal costo della vita simile.
Queste cifre si rispecchiano nei dati sulla disoccupazione giovanile, che sempre secondo Eurostat (2021), in Italia ha toccato il 23,3 per cento. In Germania è al 10,1 per cento, in Francia al 9,9%, in Spagna registra il 28,8%, nei Paesi Bassi il 14% e in Belgio il 16,7%.
In un Paese in cui l’illegalità (o cosiddetto “lavoro nero” con tutte le sue sfumature) nel mondo del lavoro ha sempre giocato un ruolo primario, dove la pressione fiscale resta altissima e dove molti operatori ambiscono ad una folle corsa al ribasso dei salari, importando da Paesi in via di sviluppo manodopera a bassissimo costo disposta a tutto (sempre in nome della sacra competizione globale), per il presidente di Confindustria il competitor degli imprenditori italiani è il reddito di cittadinanza (e i suoi 550 € di media per i percettori), non i salari e gli standard europei e occidentali. Questo la dice lunga sulla prospettiva che questa disgraziata classe dirigente sta dando, da diversi lustri, a questo Paese.
A fronte di un salario minimo che diventa sempre più comune nel mercato del lavoro Ue, a fare eccezione sono rimasti solo sei Paesi: Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Tuttavia, fa notare Eurofound, “l’Austria è uno dei pochi Paesi con aumenti salariali concordati collettivamente ben documentati, che riflettono l’impatto variabile della pandemia su diversi settori”. Ad esempio nel settore dei servizi di trasporto, nel 2021 è stato negoziato un accordo triennale che prevede un forte aumento salariale del 4,5 per cento a partire dal primo gennaio 2022 e anche gli addetti alle pulizie vedranno un aumento del 3,5 per cento nel loro salario minimo”.
Anche in Finlandia si prevede che “la pressione per aumentare i salari degli infermieri influirà sulle prossime tornate di contrattazione” portando a una ricompensa in busta paga per i lavoratori più esposti alla crisi pandemica.
In Danimarca il sindacato FNV sta cercando di far aumentare il salario minimo da 10 a 14 euro l’ora. In Lussemburgo e a Cipro i salari sono agganciati all’inflazione. Mentre in Italia la scala mobile è stata abolita trent’anni fa (1992, Governo Amato).
L’atteggiamento italiano sul salario minimo è una anomalia nel contesto europeo, a cui la politica e le imprese rispondono con un insensato “j’accuse” al reddito di cittadinanza, capro espiratorio di tutti i mali. Mentre l’Europa ci bacchetta, il tema salariale continua a non essere oggetto di discussione e gli impegni presi da partiti e sindacati sono rimasti mere intenzioni. Questa indolenza nel frattempo si traduce in un preoccupante calo del potere d’acquisto dei lavoratori che tocca soprattutto i giovani.
Un’altra triste classifica relega agli ultimi posti gli stipendi medi dei giovani italiani (18-24 anni) Secondo l’istituto di statistica dell’Unione, lo stipendio medio in Italia per la fascia 18-24 anni è di 15.858 euro, vicino alla media Ue di 16.825. Il confronto è impietoso, però, se si paragona il nostro Paese con altri dal costo della vita simile.
Queste cifre si rispecchiano nei dati sulla disoccupazione giovanile, che sempre secondo Eurostat (2021), in Italia ha toccato il 23,3 per cento. In Germania è al 10,1 per cento, in Francia al 9,9%, in Spagna registra il 28,8%, nei Paesi Bassi il 14% e in Belgio il 16,7%.
In un Paese in cui l’illegalità (o cosiddetto “lavoro nero” con tutte le sue sfumature) nel mondo del lavoro ha sempre giocato un ruolo primario, dove la pressione fiscale resta altissima e dove molti operatori ambiscono ad una folle corsa al ribasso dei salari, importando da Paesi in via di sviluppo manodopera a bassissimo costo disposta a tutto (sempre in nome della sacra competizione globale), per il presidente di Confindustria il competitor degli imprenditori italiani è il reddito di cittadinanza (e i suoi 550 € di media per i percettori), non i salari e gli standard europei e occidentali. Questo la dice lunga sulla prospettiva che questa disgraziata classe dirigente sta dando, da diversi lustri, a questo Paese.