COMPLOTTISTI E ANTICOMPLOTTISTI:
Per quanto ne sappiamo, l’uomo è l’unico animale in grado di proiettarsi mentalmente nel futuro. Molti animali agiscono in vista di necessità future, ma – si presume – senza immaginare sé stessi nel futuro. Anche l’animale in pericolo che si rende conto di rischiare di morire, reagisce sempre ad una sollecitazione presente e immediata, mentre fino a pochi secondi prima poteva sentirsi tranquillo e al sicuro.
Non accade così all’uomo, del quale è tipica la capacità di pensarsi oltre il suo orizzonte immediatamente percepito. Questo comporta per lui il fardello esistenziale più grande, ossia la coscienza del proprio dover morire, che di norma si realizza, però, in modo consistente e profondo solo con l’età adulta, mentre da giovani si aggira facilmente il pensiero della propria morte o addirittura si ‘flirta’ con esso proprio perché non se ne sono ancora pienamente colti gli aspetti profondamente distruttivi sul piano psicologico, cui non vi è antidoto davvero efficace se non l’adozione di una prospettiva in un qualche senso religiosa, metafisica o comunque spirituale.
A ciò si aggiunge il fatto che il progressivo venire a conoscenza della iper-complessità del sistema di relazioni in cui viviamo e dell’interdipendenza dei fattori che determinano le nostre esistenze, anziché spingerci ad affrontare la vita con maggior sicurezza, ha l’effetto di scoraggiarci e paralizzarci, sottraendoci – almeno come soggetti individuali – la convinzione di poter agire in modo incisivo e non velleitario almeno sul nostro microcosmo sociale.
Questi fattori di stress, di incertezza e di timore, in parte strutturali per la condizione umana, in parte derivati da una determinata temperie storica, comportano un vero sovraccarico di ansie da gestire, che nella misura in cui non trovano riduttori efficaci, si configurano in forma di angoscia. Il bambino, nelle primissime fasi della sua crescita, per aver poi uno sviluppo equilibrato, deve conseguire un senso di fiducia fondamentale verso il mondo.
A questo devono contribuire in modo decisivo genitori o comunque caregivers.
Il punto paradossale è che questa fiducia fondamentale, così necessaria, è in buona parte infondata. Infatti il mondo in cui siamo ‘gettati’ non è assolutamente lì apposta per confortarci o venire incontro alle nostre esigenze. Non per nulla il compito dell’educazione degli adolescenti, quantunque oggi molto disatteso, è anche portare il giovane – attraverso una serie di ben dosati riti di passaggio – alla consapevolezza, gravida di impegno e responsabilità, che il mondo non è lì per accontentarlo né per dargli una soddisfazione garantita, nonostante che in età infantile sia stato necessario farglielo credere, pena lo sviluppo di strutture della personalità particolarmente debilitate, inefficaci e infelici.
Una delle funzioni della trasmissione culturale, almeno nelle società in cui prevale il soggetto eterodiretto dalla tradizione, è – oltre a tutte le necessità inerenti la socializzazione e l’acquisizione delle tecniche collaudate – proprio quella di fornire un orientamento all’azione sufficientemente codificato e ‘sicuro’ da evitare che le nostre energie biopsichiche siano massicciamente coinvolte in processi di codifica e decodifica particolarmente onerosi e ansiogeni.
Perciò facciamo fatica a superare le nostre abitudini (quantunque ciò sia possibile e a volte necessario per riadattarci): per un certo periodo ci hanno consentito un adattamento se non ottimale quantomeno accettabile. Analogamente accade per tutti i processi, non slegati dall’azione, in cui si tratta di semantizzare le nostre esperienze e dare loro un senso esistenziale, funzione che pare essere connaturata al comportamento umano e, di fatto, ineludibile (anche nella forma paradossale del vivere con lo scopo di distruggere il senso che gli altri danno alla loro vita, che è tipico del cosiddetto narcinismo).
Tuttavia, nella contemporanea “società del rischio”, caratterizzata dall’iperconnettività e dall’imprevedibilità degli effetti a medio-lungo termine e su ampia scala (il famoso “battito d’ali della farfalla in Giappone che innesca l’uragano a New York”), questo confortante presidio dei pattern culturali tradizionali appare seriamente scompaginato e sempre più ineffettuale.
Ora, dinanzi a questo scenario problematico, si profila sin dall’infanzia, ma con maggiore urgenza nell’età adulta poiché meno vi provvedono interventi sgravanti da parte di genitori e insegnanti, una spinta al padroneggiamento di sé e della propria biosfera che ha connotati di assoluta necessità; si tratta di una spinta fondamentalmente positiva, quando non assume forme maniacali, ossessive, sadico-costrittive, ecc. Le strategie di padroneggiamento (mastery) sono varie e situate su vari livelli del complesso biopsichico. Non di rado, tuttavia, queste tecniche ricorrono, a monte, a meccanismi di difesa potenzialmente nevrotici che consentono uno sgravio psichico sull’immediato al prezzo però di una sempre minore possibilità di acquisire competenze per interpretare correttamente e congruamente il contesto vitale e le motivazioni profonde del proprio comportamento.
Noi tutti, dinanzi al rischio di sentirci insicuri, inadeguati e angosciati per le nostre reali capacità di comprensione e di intervento, effettivamente sempre assai modeste, ci allestiamo facilmente degli script cognitivo-comportamentali basati su alcune strategie di coping piuttosto elementari la cui flessibilità è in realtà relativa, per il semplice motivo che anche la loro continua ristrutturazione comporterebbe un costo elevato in termini di energie impiegate e di resistenze da vincere. Ciò ci consente comunque di dedicare le nostre attenzioni su obiettivi limitati e considerati più o meno alla nostra portata, stralciando altri ambiti di intervento in cui la nostra incidenza sarebbe quantomeno dubbia o che comporterebbe un investimento ingente e con scarse possibilità di riscontro. Possiamo concentrarci sul conseguimento della nostra laurea, della promozione in ufficio, nel corteggiamento di un’auspicabile partner perché non ci occupiamo di tutto il resto, che riguarda in realtà complessi di condizioni sociali, economiche, culturali e di validazione della conoscenza assolutamente determinanti per la nostra esistenza, ma la cui portata ci sfugge.
Mentre le persone più ‘semplici’ o comunque più disponibili a plasmarsi secondo codici di conformità molto strutturati e massivamente diffusi stentano persino a porsi il problema e replicano a più non posso comportamenti non riflessivi condivisi dalla massa con effetto rassicurante e ‘scacciapensieri’, quelli un minimo più consapevoli – o comunque per varie ragioni meno adattati – scorgono più o meno chiaramente il fatto che le condizioni sistemiche sono in effetti decisive anche per le riuscita delle loro strategie locali e del perseguimento dei loro obiettivi, incluso quello della sicurezza e della gestione dell’ansia.
Questa percezione ansiogena solleva un’istanza di riduzione dello stress che non può rimanere a lungo inevasa. La risposta funzionale a questa condizione emotivamente angustiante è di autoconvincersi di possedere invece sufficienti risorse cognitive per sbrogliare determinati problemi almeno sul piano della mappatura cognitiva. Per dirla semplicemente, dinanzi alla iper-complessità e alla percezione che esistano soggetti o entità composite in grado di esercitare una coazione anche senza riserve su noi stessi, ci piace reagire pensando “Eh, ma invece la so lunga, io; non mi faccio fregare!”; ossia con una mozione, per lo più illusoria, di padroneggiamento.
Orbene, ciò che distingue essenzialmente i complottisti dagli anticomplottisti è il modo in cui declinano questa autoconvinzione sostanzialmente fallace in relazione alla prevalenza del tipo di meccanismo di difesa che sta alla base della loro opzione. In sostanza né gli uni né gli altri sono davvero razionali; o se si vuole lo sono entrambi, perché implementano delle modalità che, se pur invalide sul piano cognitivo, rappresentano un ausilio per la sopravvivenza quotidiana, almeno fino a quando determinate dinamiche macro non diventano talmente cogenti e violente da impattare drammaticamente sulla sfera vitale dei soggetti in questione, senza che abbiano potuto fare nulla per opporvisi in tempo, non avendole inquadrate con sufficiente esattezza.
Al netto della loro relativa efficacia in tempi e situazioni standard, complottisti e anticomplottisti agiscono come dei veri menomati rispetto ad un ideale normativo di soggetto umano capace di azione razionale rispetto allo scopo, che come tipo puro è in effetti un concetto limite, ma cui è opportuno comunque tendere. Accade però che a sembrare più inadeguati siano i complottisti, apparentemente meno razionali degli anticomplottisti.
Prima di focalizzare i rispettivi asset psicologici di fondo, si può dire – riassumendo e generalizzando – che i primi e i secondi corrispondono spesso a differenti profili sociologici.
I complottisti sono sovente persone di estrazione sociale bassa o medio-bassa, con percorsi di istruzione modesti oppure frammentari e molto compositi, lavoratori autonomi con ridotti margini di azione oppure dipendenti molto precari o sottoccupati/sottopagati; con ridotte o comunque imprevedibili possibilità di carriera quando non addirittura discreti rischi di messa a repentaglio del loro livello sociale (declassamento); inclini a spiegazioni monocausali dei problemi, quando non anche ad auspicare risoluzioni ‘magiche’ affidandosi a spigionamenti improvvisi di autorità e di potenza (che sia dell’uomo forte oppure del popolo arrabbiato non cambia molto).
I secondi sono di solito di estrazione sociale media; sono più istruiti o quantomeno hanno un percorso formativo più lineare e standardizzato, non di rado anche più conformistico; spesso sono impiegati, insegnanti, pensionati con discrete tutele di welfare, operai da lungo tempo sindacalizzati e fidelizzati ad appartenenze politiche tradizionali, oppure svolgono professioni intellettuali o creative in cui è importante l’immagine che il pubblico si crea di loro; hanno spesso ruoli professionali meno soggetti ad oscillazioni repentine (minori rischi di declassamento) e moderate o discrete possibilità di carriera, che richiedono di mostrarsi affidabili e allineati rispetto agli apparati di cui fanno parte; sono più inclini a spiegazioni non monocausali e confidano, spesso più del dovuto, nel fatto i problemi innescati all’interno delle relazioni sociali estese si possano risolvere già solo attraverso un’adeguata tematizzazione da parte dell’utenza o dell’opinione pubblica e attraverso il regolare funzionamento delle istituzioni (siano esse l’azienda, la scuola, la redazione di un grande giornale, gli apparati dello stato, ecc.).
Orbene, a prima vista i secondi sembrerebbero più attrezzati dei primi.
In realtà lo sono solo in parte e al prezzo di aver implementato una serie di risposte cognitive socialmente accettate e rassicuranti che rendono poco disponibili ad effettuare dei cambi di paradigma e – a volte necessari – riorientamenti gestaltici. Sono interpreti di una coscienza ‘normale’, depurata dagli aspetti più inquietanti e confortata dalla replicazione di protocolli forniti da altri attraverso canali ufficiali. A dispetto del loro sbandierato acume, si affidano in realtà in modo piuttosto acritico alle versioni ufficiali fornite dalle autorità politiche o mediatiche oppure dal sistema dell’istruzione o della divulgazione scientifica, senza mettere seriamente in questione l’affidabilità degli stessi, senza problematizzare il fatto che le conoscenze e le informazioni che vengono loro somministrate provengono sempre da apparati sociali che si strutturano e funzionano secondo logiche non necessariamente improntate all’obiettività, ma anche – molto spesso – a interessi, privilegi, strategie non dichiarate e anche mistificazioni. Dunque entrambi i tipi si rivelano soggetti cognitivamente deboli, anche se gli anticomplottisti godono di maggiore credibilità per il solo fatto di collocarsi all’interno dei codici mainstream della cultura dominante, le cui agenzie si peritano, peraltro, di screditare a priori le tesi dietrologiche, sia quando sono infondate, sia quando non lo sono poi così tanto.
Ma ci sono anche motivi più ‘intimi’, oltre a quelli sociologici, per cui i complottisti e anticomplottisti sono diversi e i primi godono, se pure immeritatamente, di minore credibilità dei secondi?
Sì. Dal punto di vista psicanalitico i primi hanno personalità che si sono strutturate attorno a meccanismi di difesa più primitivi. In particolare, al fine di stornare le angosce che non derivano solo dalla percezione degli effettivi rischi del mondo esterno, ma anche delle pulsioni aggressive/distruttive inconsce, tendono a indugiare in una posizione schizo-paranoide, individuando in un oggetto esterno – scisso nelle sue componenti solo malvage – la fonte della loro angoscia di persecuzione.
L’oggetto esterno, in questa formulazione psichica primitiva, in realtà un fantasma psichico, è bersaglio di identificazioni proiettive con i propri aspetti Ombra della personalità; perciò il complottista è orientato a creare anche in modo immaginario, se pure a volte prendendo spunto da soggetti e dinamiche ben reali, la foggia del Nemico, dell’entità malvagia e potente che esercita una malìa negativa su di lui o su noi tutti, o comunque un controllo perverso.
L’esito paradossale è che, pur presupponendo questo nemico esterno come occulto, temibile e poderoso, attraverso il gioco del presunto disvelamento di esso, il paranoico acquisisce un fittizio senso di potenza e padroneggiamento: “il nemico è potente e nascosto, ma io l’ho scovato e gli contrappongo un eguale volontà di potenza e controllo, al punto di sventare i suoi piani; anche se sempre si presenterà in nuove forme, io sarò sempre pronto e vigile per combatterlo”.
Gli anticomplottisti hanno buon gioco a ridicolizzare le tendenze paranoidi, le proiezioni inconsce e gli scivolamenti consistenti verso forme indebite di pensiero magico tipiche dei complottisti.
Il complottista tende a forme schizotipiche di personalità e quindi potenzialmente ad isolarsi per quel che riguarda la sua vita privata in un mondo immaginifico e autoreferenziale; fino a quando, però, non trova situazioni che possano fare da collante ad altri simili a lui in modo da favorire delle proiezioni paranoidi collettive in direzione congiunta. Se questa socializzazione di istanze psichiche soggettive in altre epoche veniva realizzata attraverso sacrifici rituali di ‘capri espiatori’, oppure in tempi più moderni attraverso campagne di odio alimentate dalla propaganda di regimi politici autoritari, oggi i meccanismi di funzionamento della comunicazione in rete (che allo stesso tempo spersonalizzano ma fanno anche emergere istanze latenti della personalità che nell’interazione faccia a faccia o istituzionale verrebbero più contenute e controllate) creano facilmente catene mediatiche in cui far convergere e rialimentare in modo esponenziale le tendenze paranoidi di questi soggetti.
L’anticomplottista, tuttavia, irride il complottista senza rendersi conto di come anche lui fallisca assolutamente nella pretesa di avere una visione obiettiva della realtà. Rispetto alla prevalenza di meccanismi di difesa primitivi come nel complottista, nell’anticomplottista prevalgono forme più ‘evolute’, dal diniego, che è ancora una forma semi-primitiva, fino alla rimozione e alla razionalizzazione ad hoc. L’anticomplottista ha certamente ragione nel sostenere che non siamo tutti costantemente vittime di un mega-complotto della Spectre; tuttavia sbaglia profondamente a negare che la società sia innervata in modo strutturale e assolutamente pervasivo da strategie non dichiarate di soggetti in competizione per il potere (economico, politico, mediatico, ecc.).
Per intenderci: non è che tutto ciò che ci circonda sia un’unica e immensa congiura ai nostri danni; pensare questo è una sciocchezza ed è un prodotto di tendenze paranoiche; ma che in tutti i settori strategici della vita sociale operino dei soggetti di potere anche e soprattutto attraverso manovre occulte, condizionamenti indebiti, forzature, imposizioni e a volte persino atti criminali spesso impuniti, è una cosa talmente ovvia a chiunque abbia uno sguardo realistico e disincantato che non ci sarebbe nemmeno bisogno di discuterne.
Nella lotta per il potere, che si svolge a molti livelli, non solo quelli più alti della politica mondiale, ogni competitor impiega razionalmente dei piani di cui non ha nessuna intenzione di rendere partecipi tutti gli altri. Per secoli si è ritenuto non solo una ovvietà, ma persino cosa giusta che vi fossero gli arcana imperii, ossia i ‘misteri del comando’.
L’idea di fondo era che le decisioni cruciali del potere sovrano, in cui si esprime al massimo la sua discrezionalità, fossero prese in un gabinetto riservatissimo, perché a volte persino alcuni ministri del re potevano essere, magari perché aristocratici imparentati con l’alta nobiltà di altre nazioni, delle fonti di informazioni per il nemico. È veramente ingenuo chi crede che la gestione del potere, se pur venendo a patti con il sorgere di istituzioni formalmente democratiche, oggi abbia cambiato completamente registro. Le decisioni importanti vengono prese ancora in luoghi ben appartati, come sa bene chi si occupa di politologia seriamente, anche se magari non lo dichiara in TV, per ovvie ragioni.
Diciamo che vi è stato per qualche secolo una tendenza storica ad acquisire una maggiore trasparenza dei processi deliberativi; tendenza che ha avuto un trend complessivamente positivo se pur con alti e bassi fino al Novecento inoltrato, ma che non ha mai nemmeno lontanamente conseguito l’obiettivo della reale trasparenza del potere. Mai. Inoltre, negli ultimi decenni è chiaro come tale tendenza si sia addirittura invertita, in virtù della crisi della rappresentanza democratica e delle esigenze di gestione dell’insicurezza globale (terrorismo, immigrazioni massicce, ecc.), a volte anche strumentalizzate e alimentate dagli stessi apparati di potere proprio al fine di ridimensionare le richieste di accountability da parte della base popolare.
L’anticomplottista denuncia non senza ragioni l’ingenuità del complottista, ma non sa o finge di non sapere che in effetti ogni gioco di potere prevede sempre la messa in campo di tranelli, agenti segreti, minacce, corruzione, diffamazioni, usi politici della giustizia penale, campagne stampa orchestrate ad hoc, persino omicidi mirati, a volte fatti passare per semplici incidenti o suicidi, ecc.
Tutto ciò è la norma dell’agire strumentale in vista del potere; in certi regimi accade in modo sistematico, in altri no, ma comunque accade in forme più accessorie e complementari alle forme pubblicizzate di competizione per il potere. E chi partecipa alla lotta per il potere a certi livelli lo sa benissimo; e infatti cerca di tutelarsi da rischi estremi. In realtà di norma anche gli anticomplottisti che abbiano un po’ di competenze storiche ammettono che sia così, ma – sorprendentemente – relegano queste pratiche sempre a momenti del passato, anche relativamente recente, oppure ad altri regimi politici che non siano quello di appartenenza.
Quanti di loro non hanno problemi ad ammettere che dietro all’uccisione di Kennedy ci fu effettivamente un vasto complotto o che molti gruppi terroristici degli anni ’70 in Italia fossero infiltrati e manovrati dai servizi segreti italiani e statunitensi nella logica della ‘strategia della tensione’?
Eppure escludono categoricamente che fenomeni simili avvengano anche oggi all’interno della società di cui fanno parte. Ho detto “sorprendentemente”, ma in vero tutto ciò non deve affatto sorprendere. L’anticomplottista, per come ha configurato la sua strategia di padroneggiamento, non può tollerare di pensare che effettivamente molto di ciò che accade al mondo accade sopra la sua testa senza che se ne renda conto e senza che lui abbia alcuna incidenza su tutto ciò.
L’anticomplottista cadrebbe in una condizione di ansia angosciosa se pensasse che effettivamente la sua percezione di una società tutto sommato abbastanza ordinata, affidabile e rassicurante è, in fondo, surrettizia. Poiché ciò che va tutelato per lui è il senso di rassicurazione, gli occorre pensare che tutto sommato la società funzioni in modo per lui computabile, che le sue istanze, all’occorrenza, siano prese in considerazione, che mostrare di avere un comportamento istituzionalmente corretto sia già di per sé garanzia di non subire mai conseguenze negative: tutte convinzioni certamente utili a vivere più sereni, ma assolutamente infondate, a ben guardare.
Questa sindrome, prodotta da meccanismi difensivi di razionalizzazione, viene definita dallo psicologo Lerner “teoria del mondo giusto”, ossia la presupposizione indebita, ma efficacemente consolatoria, che perlomeno nella società di appartenenza, tutto sia regolato da validi criteri di opportunità, perciò “chi non fa nulla di male non ha nulla da temere” (confronta il vecchio adagio: “male non fare, paura non avere”).
Dunque mentre la visione del mondo del complottista si basa su di una sospettosità estrema caratterizzata da ideazione paranoide, quella dell’anticomplottista si basa su una fiducia non problematizzata e piuttosto infondata verso il funzionamento del mondo sociale.
Questa sensazione di fiducia diffusa, se pur poco giustificata, ha ricevuto nel corso della storia differenti fonti di legittimazione e di garanzia: la tradizione incarnata in istituzioni religiose, l’operato burocatico-legale dello stato moderno, la vigilanza da parte della stampa e dell’opinione pubblica.
Queste istituzioni hanno, però, progressivamente perso di credibilità agli occhi della maggioranza della popolazione nei tempi odierni, per ragioni che non stiamo qui a esporre.
Oggi quindi l’agenzia più accreditata nel conferire fiducia verso l’ordine sociale è quella che viene denominata semplicisticamente come “La Scienza”, mentre sarebbe opportuno designarla come “apparati sociali tecnico-scientifici e biopolitici”, il che già comporterebbe un ben altro inquadramento della questione. Ma ciò sarebbe chiedere troppo all’anticomplottista: egli infatti si appella alla scienza brandendola come feticcio ideologico presuntamente dotato di risultati pressoché definitivi e univoci, senza avere competenze sufficienti a valutare processi di ampio spettro di cui peraltro non può testare direttamente le risultanze, in quanto appannaggio esclusivo di team attrezzati, dedicati e opportunamente finanziati di cui non fa parte.
Inoltre non coglie, non avendo sufficiente attrezzatura epistemologica e metodologica, che quando si parla di questioni storiche e sociali, cioè quando si tratta di valutare la presenza di strategie volutamente nascoste da parte di soggetti di potere, non si possono certamente applicare i requisiti protocollari delle hard sciences, ma si deve inevitabilmente ricorrere al cosiddetto paradigma indiziario e ai criteri probabilistici che caratterizzano le scienze storico-sociali, di cui occorre avere contezza, ma che ben pochi possiedono, suddivisi come sono tra una formazione scientifico solo naturalistica o una formazione umanistica non scientifica.
Le strategie di potere, ovviamente, non riguardano solo le istituzioni politiche, ma anche i poteri finanziari, le grandi aziende, i gruppi di pressione, il controllo della grande stampa, i consorzi di ricerca scientifico-tecnologica e le associazioni corporative più o meno segrete (e che se rimangon segrete lo faranno per qualche valido motivo, no?). Dal punto di vista dell’ideale normativo di un soggetto razionale, sarebbe logico suppore che di norma, dietro alla superficie dei fenomeni sociali in cui agiscano poteri organizzati, vi siano sempre anche strategie occulte, ma questo non perché siamo in balìa di un unico megacomplotto mondiale di incappucciati, bensì per il semplice motivo che altri soggetti che agiscono razionalmente in vista del potere hanno tutto l’interesse pratico ad agire senza che i loro piani, anche i più spregiudicati e immorali, siano messi al corrente di tutti gli altri.
Una certa disposizione dietrologica è perciò del tutto ragionevole, anche se occorre sempre misurare i sospetti e sforzarsi di comporre dei quadri indiziari sufficientemente plausibili e motivati.
Ogni società complessa è strutturalmente oligarchica; ossia il potere tende a concentrarsi in piccoli gruppi organizzati che operano in parte pubblicamente, ma in larga parte con segretezza, senza farsi troppi scrupoli, perché laddove qualcuno se ne fa, altri più spietati si accaparreranno maggiori quote di potere. In ogni frangente, il soggetto vigile dovrebbe valutare quali soggetti sono probabilmente in campo, quali interessi hanno, quali mezzi hanno a disposizione per conseguire i loro obiettivi, dando per scontato che – laddove non vengano controbilanciati da altre forze – quei mezzi verranno quasi certamente sempre impiegati, anche laddove questi risultino indegni o dannosi per noi.
Ed evidenziare costantemente tutto questo dovrebbe essere il compito di ogni cittadino consapevole e responsabile.
Alla luce di tutto questo, appare chiaro che il profilo cognitivo, oltre che quello morale, dell’anticomplottista non è realmente superiore a quello del complottista, come invece molti erroneamente credono. Ma c’è di più: l’anticomplottista non è socialmente meno pericoloso del complottista, e per certi versi lo è quasi di più. È vero che la mentalità complottista può facilmente generare ‘mostri’ e procedere poi a epurazioni, pogrom, linciaggi, processi sommari, ecc.
È anche vero, però, che questi drammatici fenomeni sociali, per quanto assai gravi, di per sé rimarrebbero molto occasionali, in virtù del loro aspetto convulsivo; diventano invece sistematici proprio quando è all’opera un’organizzazione di potere che manovra, attraverso strategie non dichiarate, per capitalizzare, intensificare e rialimentare queste spinte distruttive in modo da canalizzarle astutamente verso qualche avversario o capro espiatorio.
Potremmo dire insomma che questa dinamica psico-sociale complottistica diventa un pericolo diffuso per l’intera società solo quando siamo effettivamente in presenza di un qualche reale complotto, se pur non individuato dai più, come infatti spesso accade.
Perciò se si applicasse con rigore e lucidità la regola del sospetto dietrologico, ossia se si fosse moderatamente e ragionevolmente ‘complottisti’, si potrebbero arginare questi pericoli, smascherando con più facilità certe trame perverse realmente esistenti e che a volte parassitano la spontanea tendenza alle ingenuità complottistiche. Che è il contrario di quanto accade di solito, nella misura in cui la maggioranza applica invece il paradigma rassicurante del “mondo giusto”, tipico degli anticomplottisti, secondo cui non è possibile che nella propria società di appartenenza le pubbliche autorità o altri soggetti titolari di potere siano realmente all’opera per realizzare fini così mostruosi.
L’angoscia che fa capolino nella mente dell’anticomplottista appena si mette in discussione il suo atteggiamento è talmente forte che reagirà ai sospetti complottisti prima con l’indifferenza e l’irrisione, ma ben presto, qualora le voci critiche aumentino (a prescindere che siano fondate o no) con una veemenza impressionante, con l’ostracismo, con l’esclusione dalle possibilità di carriera negli apparati, con la diffamazione, con l’insulto, con accuse infondate e infamanti.
A un certo punto, paradossalmente, si compie una sorta di rovesciamento di ruoli.
Gli anticomplottisti si impegneranno in campagne pubbliche al fine di evidenziare la mostruosità dei complottisti, cui presto saranno addebitate le cause degli stessi problemi che questi ultimi, in modo più o meno plausibile, additavano. Si formerà insomma un fronte compatto di anticomplottisti inclini a credere che esista una sorta di complotto ordito dai complottisti, percepiti come pericolosissimi in quanto avrebbero un’influenza determinante nella società, in grado di ostacolare seriamente il progresso scientifico, lo svolgimento delle normali procedure democratiche, l’esercizio collettivo della razionalità e il mantenimento di un corretto ordine sociale.
Anche questo esito parossistico non deve stupire chi ha adeguate nozioni di psicologia dinamica.
Infatti, sotto il nucleo di personalità ‘ben adattato’ dell’anticomplottista, caratterizzato da difese ‘nevrotiche’, permane più nascosto un nucleo di personalità più atavico, potenzialmente ‘psicotico’, caratterizzato, come nel complottista, da meccanismi di difesa primitivi.
Perciò quando l’anticomplottista percepisce inconsciamente che le proprie difese normali sono messe in tensione, le difenderà a tutti i costi, a prezzo di allontanarsi dall’obiettività ancora più del complottista, e – all’estremo – farà emergere le faglie critiche della sua strutturazione di personalità, entro la quale operano gli stessi meccanismi da ‘pensiero magico’ del complottista.
Per questi motivi l’anticomplottista è tra i due il soggetto più dannoso per la società: non solo impedisce di mettere a tema alcune questioni che riguardano le forme di potere occulto che a volte sono effettivamente presenti nella società (anche se non nella forma iper-semplificata e paranoidea che avanza il complottista); ma è anche più difficile portarlo ad un livello di esercizio della razionalità adeguato.
Infatti mentre si può sempre sperare, con un serio e faticosissimo lavoro di educazione al self-monitoring di fare evolvere gli script mentali del complottista, caratterizzati da meccanismi difensivi primitivi, verso forme più ragionevoli e empiricamente controllate della sua sospettosità, l’anticomplottista ha la presunzione di operare già al massimo possibile del functioning cognitivo umano, laddove in realtà ha soltanto sovrapposto ai meccanismi di difesa primitivi altri meccanismi di difesa più evoluti, la cui destrutturazione, per quanto in linea di massima auspicabile in vista di un migliore sviluppo cognitivo e morale, viene percepita dal soggetto con sgomento come un mero regresso al suo nucleo fondante psicotico, e perciò da evitare a tutti i costi.
di Stefano Sissa - 21/07/2017