martedì 16 luglio 2019

UN GUERRIERO DI NOME SINISA


Introduzione:
Dopo l'annuncio della sua malattia, Sinisa è entrato un po' nel cuore di tutti gli italiani e non solo di noi tifosi del Bologna.
Sono tornato a seguire il Campionato proprio quando è stato scelto come Allenatore della mia squadra per sostituire Inzaghi. Erano anni che avevo smesso di seguire il Calcio, ero deluso, anche schifato da un certo ambiente dove regna solo il mercato ed il Dio denaro.
Ero pure annoiato e stanco del karma di una società che aveva perso da tanto tempo lo spirito combattivo e certi valori umani, forse perché consapevole del suo ruolo nella terribile piramide gerarchica del Calcio. 
L'ultimo Bologna che mi aveva commosso era stato quello di Baggio che, oltre ad essere il mio calciatore preferito, aveva dato quel valore aggiunto ad un destino già scritto per certe squadre piccole come la nostra.
Da allora, fatta eccezione per alcuni grandi giocatori come Signori e pochi altri, avevo declinato la mia passione, evitando spesso di andare allo stadio e di seguire le partite in tv.
Mi consideravo oramai un ex-appassionato di Calcio, fino a quando ho avvertito un cambiamento forte, e non parlo solo della salvezza del Bologna che è riuscito pure a raggiungere il 10° posto in classifica, parlo del fatto che Sinisa è riuscito a ricreare uno spirito di squadra ed una coesione meravigliosa tra i suoi giocatori e la città che non avvertivo da tanti anni.
Una visione di gioco e della vita forse più romantica, coraggiosa e combattiva, una rarità ai giorni nostri. 
Gli stessi calciatori che avevano perso stimoli e vitalità sono come rinati e sono diventati magicamente fortissimi, vincendo addirittura contro formazioni di alto livello.
Ho avvertito una forte energia, quella che si respirava nei campetti di periferia da bambini, quella energia stupenda e primordiale che prescinde la sovrastruttura della politica che domina lo sport, ho infine avvertito il lato umano, sincero, forte e dignitoso di un uomo che, nel bene o nel male, si distingue da tanti suoi illustri colleghi.
Quella dignità che Sinisa, con coraggio e sensibilità, ha voluto regalarci nella conferenza stampa dove pubblicamente ha parlato della sua malattia. E' proprio questo il valore aggiunto, e in un mondo ipocrita, algido ed individualista, dove tutto è regolato dai soldi e prefrabbricato da multinazionali, il lato umano con la sua forza, con le sue debolezze, con le sue lacrime e che non si vergogna delle sue lacrime, mi ha commosso e dato speranza.
Sinisa è un esempio positivo, può piacere o non piacere, possiamo pensarla diversamente su tante cose, possiamo criticare alcune sue amicizie passate, come quella del criminale di guerra Arkan, però contestualizzandole all'interno di una realtà fuori dal comune, sicuramente lontana anni luce dalla nostra cultura, e di un conflitto in cui, forse, tutti noi avremmo avuto "amicizie sbagliate", se dettate dalla contingenza di orrori creati dal conflitto NATO in Serbia e dalla guerra fratricida tra popoli che fino al giorno prima, certamente con tanti problemi, vivevano l'uno accanto all'altro.
In bocca al lupo Sinisa e, facendoti i migliori auguri, ti saluto riproponendo questa bella intervista di Guido De Carolis di 10 anni fa, dove parli della tragedia del bombardamento nella ex-Jugoslavia che, un po' come il Bologna, ha subito l'egemonia dei più "forti". 
Il tuo destino è la lotta...
MDD


Mihajlovic: «Vi racconto la mia Serbia,
prima bombardata e poi abb
andonata»
di Guido De Carolis 
(23 marzo 2009)

Non rinnega, perché è fiero. Non ha vergogna, perché non c’è paura. Parlare di forza del gruppo, spogliatoio coeso non è il suo rifugio. Per star comodamente al mondo, anche in quello del calcio, basta dire ovvie banalità. Si fa così, è il protocollo da conferenza stampa. Racconta niente, ma basta a sfamare tutti. Sinisa Mihajlovic no. Non la prende mai alla larga, non ci gira attorno.
Va dentro il problema, lo spacca, lo analizza.
Poi lo ripone daccapo, con un’altra domanda e una nuova ancora, finché sei tu a cercare risposte e a dover ricomporre certezze sgretolate. Mihajlovic è una persona forte, cresciuto sotto il generale Tito, svezzato da due guerre, indurito dall’orgoglio della sua Serbia. 
Gli storici sogni di grandezza del Paese sono scomparsi, resta a mala pena la voglia di farcela a sopravvivere. L’allenatore del Bologna è un «privilegiato», almeno così dice chi guarda da fuori. 
E in fondo è vero. Aveva notorietà e miliardi in tasca quando sulla sua casa piovevano bombe. Aveva tutto, ha ancora l’umiltà di non dimenticare da dove viene e chi è.



Il 24 marzo 1999 la Nato cominciò i bombardamenti sulla Federazione Jugoslava. Quando l’hai saputo? Dov’eri?
«In ritiro con la nazionale slava. La notte prima ci avvisarono che la guerra sarebbe potuta cominciare. Eravamo al confine con l’Ungheria, la Federazione ci trasferì in fretta a Budapest. La mattina dopo sulla Cnn c’erano già i caccia della Nato che sventravano la Serbia». 

Qual è stata la tua prima reazione?
«Ho contattato i miei genitori, stavano a Novi Sad. Li ho fatti trasferire a Budapest, ma papà non voleva. Da lì siamo partiti per Roma (ai tempi giocava nella Lazio, ndr), ma dopo due giorni mio padre Bogdan ha voluto tornare in Serbia. Mi disse: "Sono già scappato una volta da Vukovar a Belgrado durante la guerra civile. Non lo farò ancora, non potrei più guadare i vicini di casa quando i bombardamenti finiranno". Prese mia madre Viktoria e se ne andarono. Ero preocuppato, ma fiero di lui». 

Dieci anni dopo come giudichi quella guerra?
«Devastante per la mia patria e il mio popolo. A Novi Sad c’erano due ponti sul Danubio: li fecero saltare subito. Ci misero in ginocchio dal primo giorno. Prima della guerra per andare dai miei genitori dovevo fare 1,4 km, ma senza ponti eravamo costretti a un giro di 80 chilometri. Per mesi la gente ha sofferto ingiustamente. Bombe su ospedali, scuole, civili: tutto spazzato via, tanto non faceva differenza per gli americani. Sul Danubio giravano solo delle zattere vecchie. Come la giudico? Ho ricordi terribili, incancellabili, inaccettabili». 

Ma la reazione della Nato fu dettata dalla follia di Milosevic. La storia dice che fu lui a provocare quella guerra.
«Siamo un popolo orgoglioso. Certo tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno. So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta». 

L’hai conosciuto?

«Ci ho parlato tre-quattro volte. Aveva una mia maglietta della Stella Rossa di Belgrado e mi diceva: Sinisa se tutti i serbi fossero come te ci sarebbero meno problemi in questa terra».
Il tuo rapporto con gli americani?
«Non li sopporto. In Jugoslavia hanno lasciato solo morte e distruzione. Hanno bombardato il mio Paese, ci hanno ridotti a nulla. Dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano aiutato a ricostruire l’Europa, a noi invece non è arrivato niente: prima hanno devastato e poi ci hanno abbandonati. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche, tutto per le bombe e l’uranio che ci hanno buttato addosso. Che devo pensare di loro?». 

Rifaresti tutto ciò che hai fatto in quegli anni, compreso il necrologio per Arkan?
«Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri». 

Ma le atrocità commesse?
«Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?» 

Sì, ma i croati...?
«Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: "C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado". Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni». 

Hai nostalgia della Jugoslavia?
«Certo, di quella di Tito. Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando». 

Sei un nazionalista?
«Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono». 

È giusta l’indipendenza del Kosovo?

«Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente». 

Dieci anni dopo la guerra cos’è la Serbia?
«Un paese scaraventato indietro di 50-100 anni. A Belgrado il centro è stato ricostruito, ma fuori c’è devastazione. E anche dentro le persone. Oggi educare un bambino è un’impresa impossibile». 

Perché?
«Sotto Tito t’insegnavano a studiare, per migliorarti, magari per diventare un medico, un dottore e guadagnare bene per vivere bene, com’era giusto. Oggi lo sapete quanto prende un primario in Serbia? 300 euro al mese e non arriva a sfamare i suoi figli. I bimbi vedono che soldi, donne, benessere li hanno solo i mafiosi: è chiaro che il punto di riferimento diventa quello. C’è emergenza educativa in Serbia. L’educazione dobbiamo far rinascere». 

Sei ambasciatore Unicef da dieci anni e hai aperto una casa di accoglienza per gli orfani a Novi Sad.
«Sì è vero, ce ne sono 150, ma non ne voglio parlare. So io ciò che faccio per il mio Paese. Una cosa non ho mai fatto, come invece alcuni calciatori croati: mandare soldi per comprare armi». 

L’immagine peggiore che hai della guerra?
«Giocavo nella Lazio. Apro Il Messaggero e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere».


https://corrieredibologna.corriere.it/?refresh_ce-cp



1 commento:

  1. Qualcuno gli dica a Sinisa (spero che guarisca il prima possibile e che vada tutto per il meglio) che a spezzettare la federazione yugoslava non furono soltanto gli ameri-kani, ma è stato un progetto condiviso, stabilito e pianificato a tavolino dove a bombardare e frammentare le popolazioni c'era anche l'allora governo D'Alema, c'erano francesi, italiani, inglesi, insomma quasi tutti i paesi occidentali facenti parte del blocco euro-atlantico. All'epoca dello smembramento della Ex-Yugoslavia in America c'era Bill Clinton, ma anche la moglie Hillary ha lo stesso tipo di mentalità, smembrare uno stato, suddividerlo in tanti piccoli blocchi al fine di poterli controllare meglio. Mi è capitato di chiacchierare sia con gente di nazionalità albanese e sia con gente della serbia e della croazia, i primi sono prevalentemente filo-americani, stravedono per il sogno americano, i secondi invece nutrono una profonda avversione per tutto ciò che è americano, ma questo diffuso antiamericanismo si trova praticamente in quasi tutta la penisola balcanica e non solo (ungheria, austria, slovenia, e paesi limitrofi, tutti facenti parti dell'ex impero austro-ungarico) c'è un'avversione cosi grande nei confronti della cultura anglosassone che molte persone si rifiutano addirittura di loro spontanea iniziativa di impararsi la lingua inglese. In Italia invece anche i notiziari si stanno lentamente inglesizzando, giusto per dare una vaga idea di come la cultura anglosassone sia quella britannica che d'oltreceano, o la si ama fino alla follia, rinnegando o comunque sminuendo la propria cultura di appartenenza, oppure si evita in tutti i modi di far entrare nella propria vita qualsiasi forma di anglosassonizzazione. Io personalmente (anche se la mia opinione non può fregà de meno a nessuno) sono per la via di mezzo, certo da una parte quando mi capita di leggere che da Londra fanno sapere a più riprese che entro il 2025 dell'Italia non ne rimarrà quasi nulla, considerando che in un certo qual modo la crisi economica la sto subendo anch'io, però sono anche dell'idea che non si può negare davanti all'evidenza dei fatti che il mondo anglosassone sotto molteplici punti di vista è molto più attrezzato e organizzato rispetto ai paesi dell'area euro-mediterranea.
    Rinnovo i miei auguri di guarigione a Sinisa, pur non essendo un appassionato di calcio, mi da una sensazione di una persona che porta con sé dei grandi valori, un vero guerriero. Collegando i tasselli il mondo anglosassone prende di mira tutti quei paesi che hanno una forte identità patriottica, in quei paesi i valori etici e morali sono molto solidi, in realtà uno degli scopi ultimi è proprio quello di indebolire la psiche di certe popolazioni, una sorta di sudditanza psicologica.

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