giovedì 29 febbraio 2024

L' OCCULTO IN GREMBO (ROSEMARY'S BABY) di Claudio Bartolini



L’occulto nel grembo
di Claudio Bartolini
Modernità occulta – Le radici simboliche delle arti contemporanee n. 5/2013
http://www.bietti.it/riviste/modernita-occulta-le-radici-simboliche-delle-arti-contemporanee/locculto-nel-grembo-di-claudio-bartolini/

In principio furono gli horror targati Universal, con il loro bianco/nero ad alto contrasto e i volti immortali di Boris Karloff, Lon Chaney Jr. e Bela Lugosi. 
Poi arrivarono la Hammer Films e Roger Corman, Mario Bava e George A. Romero, con le produzioni a costo zero, i remake dai colori sgargianti e quella violenza artigianale che in breve divenne culto. 
La Storia del Cinema ha sempre delegato ai prodotti di genere il ruolo di contenitore esoterico, depositario di quelle istanze sfuggenti e oscure che albergano sotto la superficie della pellicola. Se la fantascienza ha proiettato al di fuori del mondo conosciuto la propria sete di conoscenza e (di)svelamento, l’horror ha dato forma a creature di finzione sulle quali riversare istinti altrimenti deplorevoli, bassezze indegne di normali esseri umani e strutture psicofisiche immediatamente riconoscibili come diverse – e perciò pericolose. 
Dracula, la Mummia, le streghe, i “ritornanti”: proiezioni deformi del perturbante che alberga in ognuno di noi, incarnazioni delle paure e delle debolezze dell’uomo comune. Il mostro è ciò che non si conosce, destinato all’isolamento e, spesso, condannato a morte dalla comunità. È fuori, minaccioso: spetta così all’uomo lasciare la porta chiusa e respingere l’invasione.

Poi arriva Roman Polanski. E il mostro rientra. Nel 1968 approdano nelle sale due testi chiave dell’horror moderno: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, G. A. Romero) e Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York (R. Polanski). Se il primo attesta la nascita del new horror, pregno di istanze sociali e politiche, il secondo sposta per sempre il baricentro teorico del discorso esoterico legato al cinema. Nella storia di Rosemary vengono meno le consuete rassicurazioni simboliche deputate all’allontanamento del mostro e gli argini individuali e comunitari collassano, fino a diventare i nuovi parametri costitutivi dell’altro da sé, che nel frattempo è diventato nuovo sé.
La logica sottesa al film è a chiara matrice esoterica, con rituali e messe nere, patti con il diavolo e affiliazioni ad una setta dedita alla stregoneria e disposta ad uccidere pur di mantenere la segretezza. Niente di inedito, nel panorama cinematografico, non fosse per l’elemento (chiave) capace di ribaltare i parametri abituali: il diverso non è al di fuori della vita di Rosemary, intento ad assediarne la proprietà e la psiche ma è dentro, nel condominio in cui lei e il marito Guy Woodhouse si sono trasferiti, nell’appartamento in cui abitano, nello stesso corpo che le consente di vivere. 
Durante i titoli di testa, Polanski compie una panoramica sui tetti di Manhattan, per poi fermarsi in prossimità del Dakota Building, dove i Woodhouse hanno preso dimora. 
A parte i riferimenti di rito all’Hitchcock di Psyco (1960), l’importanza di questo movimento di macchina risiede nell’esplicitare in partenza una chiara volontà dell’horror moderno: penetrare, violare le soglie (fisiche e simboliche), passando dall’esterno (lo skyline urbano) all’interno del Dakota, mostrato nella sequenza immediatamente successiva.
L’entrata, l’androne, il corridoio condominiale: Polanski esplora il sistema linfatico del corpo sociale di base (la casa) per poi penetrarlo del tutto ed entrare nell’appartamento in cui andranno ad abitare i Woodhouse, presentato allo spettatore come il luogo in cui, nell’Ottocento, vissero le sorelle cannibali Trench e l’esperto di stregoneria Adrian Marcato. “La chiamavano la casa del Diavolo”: da subito, il luogo eletto per il compiersi della prassi esoterica è il riferimento solido per eccellenza, il refugium, demolito nella sua istanza protettiva primaria. 
Una volta spalancate, le soglie dell’appartamento consentono l’ingresso al maligno e continui interscambi dimensionali (interno/esterno, come sonno/veglia) nella mente di Rosemary, alla quale la casa invia incubi, visioni e premonizioni soggioganti. Come già in Repulsion (1965), le mura domestiche polanskiane sono fucine allucinatorie e territorio compromettente per la stabilità emotiva del personaggio. 
Mentre la Carol di Catherine Deneuve sovrapponeva però il piano oggettivo alla delirante soggettività, fino al contatto con pareti antropomorfe, allo stupro immaginario ed al delitto vissuto ma mai veramente consumato, Rosemary subisce fattivamente le pressioni coercitive della comunità che la circonda, finendo in un vortice di follia oggettiva che legittima, in questo modo, la gravità e l’importanza delle istituzioni contemporanee nel nuovo horror di Polanski. Quelle della signora Woodhouse non sono allucinazioni post partum – sebbene certa critica sia caduta nell’ambiguo tranello – per due semplici motivi: troppo complessa è la trama complottista per poter essere soltanto frutto di una mente suggestionata e troppo oggettivato il finale dell’opera, del tutto disambiguato circa l’attendibilità del fenomeno esoterico.
La rete costruita dalla setta esoterica stringe le proprie maglie avvicinandosi alla protagonista, in un moto vorticoso che, partendo dall’involucro domestico, si stringe fino al suo grembo. Gli affiliati altro non sono che i vicini di casa, il medico curante e i nuovi amici, coordinati dal gran cerimoniere Castevet. Essi colonizzano l’appartamento dei Woodhouse, regalando a Rosemary il ciondolo di affiliazione e manipolando la mente di Guy, facendo leva sulla sua permeabilità nichilista (“Sono cose che non digerisco. Tutti quei costumi, quei riti… qualsiasi religione”).

Il messaggero e neofita altri non è che il marito, reo di aver barattato la propria fama professionale con l’integrità della moglie, ingravidandola con diabolico seme. Guy stringe il più classico dei patti col diavolo, rinsaldando anche il rapporto tra esoterismo e rappresentazione, in virtù del suo mestiere d’attore.
Infine, il diavolo è il figlio che, in seguito al patto, Rosemary porta in grembo. 
L’attacco è deciso, diretto e inequivocabile: gli archetipi “amici” dell’universo sociale moderno non solo sono definitivamente compromessi ma si rivelano i vettori attraverso cui l’elemento demoniaco può nascere, proliferare e vincere la propria battaglia. 
Casa, vicinato, marito e figlio costituiscono il fenomeno esoterico di Rosemary’s Baby, quella pratica inintelligibile che apre spazi e interstizi su dimensioni ignote, confluenti nella culla finale dove giace il diavolo. 
L’innovazione perturbante della pellicola è proprio in questo assunto: niente di ciò che conosciamo è realmente ciò che sembra e la contaminazione può verificarsi proprio nell’ultimo luogo (simbolico) nel quale dovrebbe. Rosemary diventa involucro assediato dalla setta e pervaso dal feto diabolico che in lei riposa. 
Il complotto la stritola e, ogni volta che cerca un nuovo appiglio antropologico cui aggrapparsi (il vecchio dottore, il primo medico curante), esso si rivela parte della setta o da questa viene eliminato.
Quale allora il suo destino? 
In un vortice fatalista, Polanski precipita la sua Rosemary in una spirale senza uscita, modificandone progressivamente l’abbigliamento (dal bianco/giallo iniziale al rosso carminio precedente il fatale rapporto sessuale con il Demonio) e l’aspetto fisico: è sempre più emaciata, pallida e sofferente, in una logica corporea destrutturante che sarà portata a compimento dal successivo filone esorcistico, nel quale però la donna/involucro sarà a sua volta posseduta dal diavolo. 
Rosemary è un semplice e funzionale contenitore, destinato ad un ruolo ben preciso all’interno della setta. 
Dopo la nascita del “bimbo”, infatti, Castevet e gli altri affiliati le chiedono esplicitamente di svolgere la sua funzione di madre (in)naturale: lei si avvicina alla culla e guarda la creatura, due occhi diabolici nel nero del quadro (“Ha gli occhi di suo padre”); infine sorride e la prende in braccio, aderendo così ai nuovi dettami imposti dalla loggia. 
La volontà della madre capitola dunque di fronte alla visione del figlio, in una estrema e sferzante sintesi della profondità coercitiva che assumono i rapporti sociali nella civiltà contemporanea. L’inevitabilità e il dominio incontrastabile del male vanno a braccetto con l’inevitabilità dei condizionamenti moderni, per la prima volta mostrati nelle loro potenzialità esoterico/demoniache.

Con Polanski, dunque, l’horror subisce uno scarto significativo, impartendo una lezione spiazzante: l’oscurità è in noi, nei legami instaurati e nelle unità sociali che reputiamo fondamentali (proprietà domestica, buon vicinato, matrimonio e filiazione). “All’anno uno!” esclamano gli affiliati sollevando i calici, mentre nella stanza troneggia la culla nera di colui dopo il quale nulla sarà più lo stesso. 
Grazie ad una dissolvenza incrociata, la macchina da presa passa dallo sguardo intenerito che Rosemary rivolge al figlio al totale in esterno del Dakota Building, tornando all’anonimato di quei tetti inquadrati nella prima sequenza: il mondo è rimasto uguale e inconsapevole, ma lo spettatore sa che non è che apparenza, e al movimento ad imbuto verso l’interno – compiuto dalla narrazione – ne seguirà uno contrario verso l’esterno, da compiersi nei decenni a venire. Perché il fenomeno esoterico, di certo, non si esaurisce con la narrazione filmica.
All’“anno uno” messo in scena da Polanski corrisponde un nuovo corso cinematografico che – svincolando l’horror dai legami obbligati con l’ambientazione gotica e l’universo semantico dell’inverosimiglianza – lo salda alla contemporaneità e alle sue logiche esoterico-complottiste. 
I nuovi mostri si radicano nel tessuto sociale e in esso si mimetizzano, estendendo la propria influenza nella quotidiana proliferazione. Non più creature irreali, ontologicamente repellenti o frutto dei folli esperimenti dei figliocci del Dr. Frankenstein: il nuovo corso del genere cresce nelle case, negli ospedali e in tutti i nuclei stabili del mondo civile. 
L’esorcista (The Exorcist, W. Friedkin, 1973) apre il genere al citato filone della possessione demoniaca, il cui epicentro è sempre (più) l’abitazione. 
Il diavolo riesce a penetrare in un luogo considerato simbolicamente inaccessibile e ad incarnarsi nel componente più puro dell’istituzione familiare. 
La violazione fisica e mentale della bimba, con la sua conseguente trasformazione, alza l’asticella della crisi messa in atto dal new horror: nessuno è più innocente e i fanciulli possono apparire deformi e crudeli, sull’onda lunga de Il villaggio dei dannati (Village of the Damned, W. Rilla, 1960), seguita compiutamente da David Cronenberg nel successivo Brood. La covata malefica (1979) e da John Carpenter nel remake del Villaggio dei dannati (1995). Accanto ai fanciulli del filone esorcistico – tra i cui titoli ricordiamo il nostrano Chi sei? (O. G. Assonitis, R. Barrett, 1974) – l’esoterismo di celluloide demolisce ogni altra sicurezza. 
Se Stuart Gordon rinnova il mito di Frankenstein in seno al mondo universitario della medicina nel suo Re-Animator (1985), Brian Yuzna attacca la borghesia con i contorsionismi splatter di Society. The Horror (1989), trasformando la “bella società” contemporanea nella sede di abominevoli orge sanguinolente. 
Senza dimenticare gli oscuri simbolismi de I segreti di Twin Peaks (D. Lynch, 1990-1991) né gli ancestrali rituali cannibalici compiuti dal “buon vicinato” ne Il profumo della signora in nero (F. Barilli, 1974). Nessuno viene risparmiato nel nuovo corso horror successivo all’“anno uno” imposto da Rosemary’s Baby.
Al di là di ogni possibile e obbligatoriamente parziale mappatura, è significativo annotare quanto il cinema post-1968 porti alla luce il fenomeno esoterico, svelandone disfunzioni e ramificazioni in seno al corpo sociale. Per rendere l’idea di questa escalation rappresentativa, è utile tornare al cinema di Polanski. 
Se con Rosemary’s Baby l’autore aveva gettato il seme per lo sviluppo interno (dal greco esoteros) degli archetipi della setta e dell’affiliazione iniziatica, con La nona porta (The Ninth Gate, 1999) rende conto di ogni evoluzione, struttura e snodo del fenomeno esoterico su larga scala.

Prelevando nuovamente l’ultima inquadratura del Dakota Building, è lecito affermare che La nona porta costituisca l’esatto prosieguo di quella uscita in esterni: è cinema che svela, attraverso le metodiche ricerche del protagonista Dean Corso, una rete mondiale dell’occulto capace di legare gli Stati Uniti al Portogallo, la Spagna alla Francia, sotto il segno dell’Ordine del Serpente d’Argento, sorta di congrega di streghe per annoiati miliardari utilizzata per orge e rituali sfrenati (di nuovo, ritorna l’attacco alle istituzioni sociali). Se Rosemary trascorreva gran parte del tempo in casa, Dean si muove in una bulimia di luoghi e rivelazioni che disambiguano del tutto l’opera da ogni possibile lettura soggettiva. In opposizione al moto narrativo e grammaticale centripeto che apriva Rosemary’s Baby (dal Dakota all’interno condominiale), La nona porta inizia nella biblioteca di uno studioso per poi mostrare un esterno aereo. Per accedere al mistero esoterico nella sua integrità bisogna varcare soglie in uscita, come sottolineano i titoli di testa con (nove) porte che, inquadrate in carrello digitale, si aprono sul buio.
Di fronte allo spettatore va in scena il mercato globale dell’occulto, l’aggiornamento del fenomeno esoterico sul modello postmoderno della rete. 
Ogni collezione di libri magici diventa accessibile, ogni pista percorribile, ogni rivelazione decriptata: allo spettatore del 1999 è concesso di vedere il diavolo e ammirarlo (ammirarla) in un amplesso consumato con Dean, mentre a quello del 1968 restavano due occhi su fondo nero percepiti solo in pochi fotogrammi sfuggenti. L’assunto vince sulla suggestione, il rituale (sociale) esoterico è srotolato integralmente su pellicola ma, al contempo, privato di ogni possibile funzione destabilizzante.
Consapevole della deriva demistificatoria, Polanski ironizza sull’occulto convocato e lo decostruisce attraverso il filtro grottesco, i personaggi caricaturali e i rivoli umoristici. Perché oggi le violazioni della casa, del vicinato, della famiglia, finanche dei figli, non sono più un fenomeno perturbante. Non stupiscono né spaventano. La nuova frontiera dell’esoterismo filmico non può allora che esserne la parodia.

1. “Certo non è un caso che Adrian Marcato (evocatore del demonio) abbia vissuto lì, ma non sembra esserci alcun rapporto diretto, per esempio, tra lui e le sorelle Trench, che mangiavano i bambini, e allora bisogna concludere che la forza maligna d’una casa, ove esista, agisce indipendentemente da chi la abita” 
A. Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Genova 1997, p. 120.

2. Angelo Iocola (Il clima cospirativo, in “Nocturno Dossier”, n. 126, febbraio 2013, p. 66) formula l’idea di un trittico polanskiano, composto da Repulsion, Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano, costituente “quella che potremmo definire «cospirazione in interni con derive paranoiche»”.




I SUPERIORI SCONOSCIUTI di Michele Fabbri

 



I Superiori Sconosciuti
di Michele Fabbri 



Le teorie del complotto che indagano su quel male assoluto rappresentato dalla globalizzazione hanno alle spalle una lunga storia che parte dalle teorizzazioni dell’abate Barruel a fine ‘700, per arrivare agli attuali piani mondialisti.
Un punto di snodo di grande importanza nella formulazione di queste teorie è rappresentato dagli studi che René Guénon ha dedicato all’argomento pubblicando articoli sulla stampa antimassonica, articoli che i lettori moderni possono trovare agevolmente in una ristampa: AA VV, La polémique sur les “Supérieurs Inconnus”, Archè, Milano 2003, pp.208. 
Il volume comprende anche testi di altri autori che trattavano il tema dei “Superiori Sconosciuti”: Louis Dasté, Gustave Bord, Benjamin Fabre, Charles Nicoullaud, Papus, Paul Copin-Albancelli.


Inoltre esiste uno studio monumentale di Louis de Maistre dedicato all’argomento: "L’Énigme René Guénon et les “Supérieurs Inconnus". L’autore ha effettuato un lavoro di ricerca sulle fonti che utilizzavano gli autori coinvolti nella polemica antimassonica. 
Le riviste che in Francia portavano avanti questa meritoria battaglia civile erano: La Bastille, La France Antimaçonnique, Mysteria, Revue Internationale des Sociétés Secrétes. Guénon scriveva su queste pubblicazioni con lo pseudonimo di “Le Sphinx”. 
Il dibattito sui temi in questione era animato principalmente dal mondo cattolico conservatore, ma vi contribuivano anche esoteristi come Guénon, e perfino ex massoni e spiriti laici infastiditi dal settarismo delle logge.
Le discussioni erano spesso imperniate sul tentativo di individuare i “Superiori Sconosciuti”, ovvero i personaggi che tiravano i fili dei burattini all’interno della massoneria, eventualmente tramite “logge coperte”, e che talvolta venivano indicati in persone in carne ed ossa, come Cagliostro o il Conte di Saint Germain, oppure venivano identificati negli ebrei, o nel diavolo stesso o, più verosimilmente, nell’insieme di idee-guida che ispiravano le logiche della sovversione. Si ipotizzava anche che gli “iniziati” avessero la facoltà di riunirsi “in astrale”, ovvero in una dimensione ultraterrena e non corporea nella quale avrebbero avuto modo di coordinare la loro azione sulla società.
Lo spunto per la riflessione nasceva da uno studio di Benjamin Fabre: Franciscus, Eques a capite galeato. Si trattava di un saggio, pubblicato nel 1913, dedicato al marchese di Chefdebien, un alto iniziato che aveva cominciato la sua carriera massonica nella fase preparatoria della Rivoluzione francese per proseguirla sotto l’Impero. Lo studio di Fabre mostrava come Napoleone pensasse di controllare la massoneria introducendo i suoi ufficiali nelle logge, mentre in realtà era la massoneria che controllava l’Imperatore dei Francesi!
Le ricerche mettevano in luce i legami tra le logge francesi e gli “Illuminati di Baviera” di Weishaupt, nonché le ipotesi sul centro di potere ebraico che agiva attraverso la massoneria.



A partire da questi dati comincia la ricerca di Louis de Maistre, che indaga sul problema sempre aperto delle fonti di Guénon, che il filosofo francese lasciava volutamente nell’ombra, sia per affascinare il lettore col suo stile ermetico, sia perché era convinto di esprimere verità tradizionali il cui valore era indipendente dalla personalità di chi le esprimeva. I più ardenti sostenitori di Guénon ritengono che l’opera del pensatore di Blois sia il più importante avvenimento culturale dalla fine del medioevo, ma anche senza arrivare a sostenere questa tesi occorre riconoscere che Guénon è una guida autorevole nel terreno scivoloso della storia occulta.
Guénon negli articoli in questione attaccava la massoneria adeguandosi allo stile delle riviste su cui scriveva, tuttavia in opere successive articolò il suo giudizio sui liberi muratori, criticando le deviazioni moderne delle logge. C’è anche chi ha sostenuto che Guénon sarebbe stato una sorta di cavallo di Troia all’interno del mondo cattolico col compito di diffondere una mentalità più favorevole all’occultismo, ma secondo Louis de Maistre questo giudizio sembra discutibile poiché nel complesso la critica alla modernità di Guénon è simile a quella della cultura cattolica tradizionalista.
Nel periodo della collaborazione a La France Antimaçonnique, Guénon era in relazione con un personaggio enigmatico: Swami Narad Mani. Si trattava di un induista che avrebbe passato a Guénon della documentazione sulla teosofia che il filosofo avrebbe ampiamente utilizzato nel suo corrosivo saggio contro il sistema di pensiero di Mme Blavatsky.
I testi di Narad Mani non sono particolarmente originali, e sostanzialmente riportano dati che potevano essere attinti da altre fonti. Inoltre Narad Mani era un sostenitore dello spiritismo, che era invece avversato da Guénon. Tuttavia alcune idee dello studioso indù devono aver influenzato la cultura esoterica, in particolare la tesi dell’esistenza di 33 logge dirette da un “Comitato occulto”. Si trattava di un’idea presente anche in Taxil: le 33 logge attraverso le quali i luciferiani governavano il mondo!
Le fonti indiane menzionavano anche la Teshu Maru, un’organizzazione iniziatica degenerata che avrebbe fatto da supporto alla controiniziazione: ipotesi che eccitavano le fantasie dei cospirazionisti…


È a questo punto che l’indagine verte sulla figura di Saint-Yves d’Alveydre che fornì a Guénon lo spunto per scrivere una delle sue opere più fortunate: Il Re del Mondo. L’idea di un regno sotterraneo governato da idee utopiche non era nuova, e sarà ripresa da Ossendowski nel suo celebre saggio Bestie, uomini e dèi
Ossendowski qualificava la misteriosa figura del “Re del Mondo” come “Grande Sconosciuto”, un appellativo inquietante che quasi richiamava aspetti anticristici. Saint-Yves a sua volta si ispirava a Hardjji Scharipf Bagwandas, un indù il cui stile somigliava a quello di Narad Mani. Il rapporto fra Saint-Yves e Scharipf è documentato a partire dal 1885, l’anno in cui esplode l’affare Taxil: una singolare coincidenza…
Nell’opera di Saint-Yves fanno capolino città infernali e comitati segreti che dirigono gli avvenimenti mondiali: gli ingredienti del sistema di potere mondialista cominciavano a entrare nell’immaginario del mondo intellettuale. Inoltre Scharipf era verosimilmente un esperto della “via della mano sinistra”, la pratica tantrica che utilizzava stregoneria, negromanzia e magia sessuale come metodi per indebolire la personalità. Erano concezioni che trovavano riscontro in certe correnti della Cabala ebraica che influenzeranno notevolmente la classe dirigente massonica.
Louis de Maistre individua altre fonti che hanno alimentato la misteriosa leggenda dell’Agartha: il pittore austriaco Alfred Kubin (1877-1959) dipingeva soggetti di carattere infernale che ispiravano la visione di un mondo in via di dissoluzione e in preda alla violenza. Kubin aveva scritto anche il romanzo Die andere Seite in cui descriveva un reame misterioso situato nel Turkestan e circondato da una “Grande Muraglia”: si tratta di temi che presentano analogie con quelli trattati da Guénon e da Ossendowski. 
Ne Il Re del Mondo Guénon sosteneva che il satanismo consisteva proprio nella identificazione del “Re del Mondo” col princeps hujus mundi, ovvero nella confusione fra l’aspetto luminoso e l’aspetto tenebroso. Si trattava evidentemente di idee diffuse nel dibattito culturale, legate ai sentimenti di smarrimento che attanagliavano l’opinione pubblica in quell’epoca di incipienti cambiamenti sociali ed economici, oggi elevati all’ennesima potenza dalla globalizzazione.
Guénon partecipò anche alle attività di un gruppo detto dei “Polari”; si trattava di una associazione esoterica che si ispirava agli oracoli di Padre Giuliano, un eremita che viveva a Bagnaia, presso Viterbo, nei primi anni del ‘900. A questa figura si facevano risalire una serie di dati fantasiosi e non verificabili che tuttavia presentano somiglianze con quelli trattati da Saint-Yves e da Guénon.


Lo studio di Louis de Maistre cerca anche di approfondire l’eterno dilemma su cui discutevano e discutono ancor oggi i complottisti: la massoneria è nata autonomamente o è una creazione della comunità ebraica? Probabilmente la domanda è destinata a restare senza risposta: se è vero che sono testimoniate influenze ebraiche fin dal XVII secolo nell’entourage di Cromwell, tuttavia gli ebrei sono presenti in scarso numero nelle logge all’inizio del XVIII secolo, e probabilmente gli ebrei massoni di quest’epoca erano visti con sospetto dai loro stessi correligionari.
Quello che si può documentare è la diffusione delle idee nate negli ambienti ebraici ispirati alle teorie di Sabbatai Tsevi e di Jakob Frank, che indicavano una “via della mano sinistra” in cui il vizio e il peccato erano la strada per raggiungere la salvezza. I seguaci di tali teorie erano verosimilmente organizzati in strutture segrete simili a quelle massoniche, nel comune intento di offrire alle masse l’illusione della libertà, con lo scopo di asservirle a un potere assai più cinico e dispotico di quello dal quale affermavano di liberarle.
Nella Cabala il contatto con forze demoniache aveva acquisito sempre maggiore importanza nel corso del tempo: gli studiosi di questa disciplina ebraica erano esperti nella manipolazione di residui psichici, e l’applicazione di tali teorie nel mondo massonico è testimoniata dal sistema degli “Eletti Coen” fondato da Martinez de Pasqually nel 1754. Lo stesso Cagliostro a Londra ebbe contatti con Ba’al Chem, un discepolo di Tsevi.
I seguaci di Tsevi e di Frank agivano come veri e propri missionari della sovversione, infiltrandosi nelle logge massoniche in modo più o meno palese, ma condizionandone le dottrine in maniera decisiva. Jakob Frank prefigurava l’avvento di un “mondo nuovo” caratterizzato da un “Grande Fratello” e da un “messia femminile”, concezioni che sembrano avere spaventose consonanze con la realtà contemporanea…
Nella lunga marcia della sovversione ebbero grande importanza le teorie teosofiche di Mme Blavatsky: in particolare la teoria dei Mahatma richiama l’idea dei “Superiori Sconosciuti”. Il teosofismo influenzò gli ambienti risorgimentali italiani, soprattutto Mazzini e la Carboneria. Fra gli italiani che ebbero contatti con la teosofia c’erano Giacinto Bruzzesi, Adriano Lemmi, Marco Antonio Canini, tutti personaggi abili ed esperti nel condurre operazioni occulte e defilate.
Alle idee teosofiche si ispirava anche Djamal ad-Din al Afghani, che si adoperò nel mondo islamico per una riforma religiosa ispirata a concezioni protestanti e per la diffusione di idee moderniste e socialisteggianti.


Si sviluppava quindi un sotterraneo lavoro di lavaggio del cervello e di manipolazione psichica che si estendeva attraverso nazioni e continenti, un lavoro di cui la Società Teosofica era in qualche modo l’aspetto visibile e istituzionale. Il piano, accuratamente preparato, spazzava via dalle coscienze ogni traccia di ordine positivo, attuando le direttive spirituali puramente distruttive di Jakob Frank. Si creava quindi un meccanismo di automazione sociale di cui le masse non erano minimamente consapevoli, e di questo sistema sono signori gli “iniziati” che governano le nazioni come veri e propri missi dominici della controiniziazione. Nel XXI secolo l’umanità sta assistendo a ulteriori angoscianti applicazioni di questo sistema ormai ampiamente collaudato…
I cospirazionisti cercavano anche localizzazioni geografiche dei centri della controiniziazione, che spesso venivano indicati in luoghi dell’Oriente, più o meno estremo. Guénon riteneva che la Mongolia fosse uno dei centri di irradiazione privilegiati delle influenze maligne, e la diffusione del manicheismo fra alcune popolazioni orientali sembrava confermare queste tesi. Lo stesso Guénon, inoltre, aveva accennato all’esistenza di torri diaboliche, alcune delle quali situate nelle steppe della Russia centrale.
L’instaurazione del regime comunista in Russia confermava le tesi dei cospirazionisti, e la letteratura complottista individuava personaggi considerati “minori” dalla grande storia, ma che avevano avuto ruoli importanti nella diffusione delle “idee nuove”. 
In ambiente russo a cavallo fra ‘800 e ‘900 era attivo Agwan Dorjiev, un lama buddhista che aveva una qualche influenza nell’ambiente zarista e che forse era implicato in attività di spionaggio i cui intenti non erano ben chiari. In seguito lo stesso Dorjiev sarà vittima delle epurazioni staliniane e morirà in prigione nel 1938. Anche in questo caso sembra di poter arguire che dietro il mascheramento buddhista ci fossero idee progressiste e universaliste di tipo teosofico.

Le teorie sulla provenienza orientale degli agenti della controiniziazione trovavano terreno fertile anche in una diffusa paura per una imminente invasione asiatica in Europa: all’inizio del ‘900 esisteva una letteratura diffusa che prospettava ipotesi di questo genere.
Guénon inoltre sembra essere stato in contatto con individui che lavoravano per l’Intelligence Service britannico, e l’esoterista francese vedeva opportunamente nell’imperialismo inglese un potente mezzo di propagazione della sovversione democratica. In quel periodo personaggio di punta delle trame inglesi era Sir Basil Zaharoff, un cinico mercante d’armi che era fra i dirigenti della Vickers, colosso industriale degli armamenti; Zaharoff sembra aver avuto una qualche influenza nell’infiammare i nazionalismi balcanici che accenderanno la scintilla della Grande Guerra.
Gli anni giovanili di Zaharoff sono avvolti in un fitto mistero, e la sua improvvisa ascesa nel mondo dell’affarismo cosmopolitico fa intuire che il personaggio fosse introdotto nei più esclusivi ambienti delle forze occulte…
Lo stesso intellettuale fascista Giovanni Preziosi in un articolo del 1934 parlava di Zaharoff definendolo “l’uomo più misterioso del mondo”.
Le vicende di Zaharoff si intrecciano anche con quelle di Giuseppe Volpi, uomo d’affari veneto, famoso per essere stato l’artefice della Mostra del Cinema di Venezia. Volpi appoggiandosi alla Banca Commerciale Italiana gestiva fiorenti commerci nei Balcani, soprattutto in Serbia.
Questi personaggi sembrano aver operato secondo piani ben precisi, utilizzando alternativamente nazionalismo e internazionalismo, in modo da destabilizzare l’antico ordine sociale per far entrare l’umanità nell’era messianica del mondialismo.
Concezioni di questo genere venivano elaborate in ambienti massonici, e Louis de Maistre cita anche l’opera del calabrese Benedetto Musolino che teorizzava uno stato fondato su principi mosaici e talmudici: una vera e propria prefigurazione ante litteram del sionismo!
Infine lo studio di Louis de Maistre si sofferma sull’importanza dell’opera di Guénon nell’ambito dell’esoterismo e della storia occulta. Il Maestro del tradizionalismo non è usualmente preso sul serio in ambito accademico, e d’altra parte lo stesso Guénon detestava il mondo universitario. Tuttavia l’opera del pensatore di Blois offre ancora oggi un punto di vista originalissimo sulla storia occulta e suggerisce infiniti spunti di approfondimento: l’imponente saggio di Louis de Maistre è un ottimo contributo in questo senso.

* * *
Louis de Maistre, L’Énigme René Guénon et les “Supérieurs Inconnus”. Contribution à l’étude de l’histoire mondiale “souterraine”, Archè, Milano 2004, pp. 960.

martedì 20 febbraio 2024

CHI HA UCCISO NAVALNY?


"Chi ha ucciso Navalny?" è diventato il nuovo meme mediatico, ma nessuno fino ad ora si è chiesto come mai la notizia sia venuta fuori. Perché mai confessare la morte di un dissidente, quando poteva essere taciuta e nessuno, familiari compresi, lo sarebbe venuto a sapere? Un dissidente che nessuno avrebbe potuto più vedere, sarebbe bastato negare qualsiasi contatto o informazione ai familiari, a tutti gli organi sovranazionali e la faccenda sarebbe finita nel dimenticatoio dei segreti. Invece, la Russia dello zar Putin ha dato la notizia al mondo, apparentemente facendo un autogoal senza alcuna logica, proprio ora, dopo la famosa intervista con Tucker Carlson, dove il dittatore è apparso come un saggio statista internazionale che disquisisce di geopolitica.
Soprattutto, perché mai Putin avrebbe dovuto ucciderlo, sporcando inutilmente ed ulteriormente la sua immagine? Cosa ha spinto Mosca a eliminare il dissidente a un mese dalle elezioni presidenziali? Non ha alcun senso, cui prodest?
Invece, sono proprio i silenti sovietici ad informarci dell'accaduto. Una morte dovuta a problemi cardiaci arrivata dopo una passeggiata.
Per carità, tutto è possibile, ma io istintivamente non mi fido di quello che dicono i Servizi Segreti di ogni latitudine. Se qualcuno comunica a quei livelli significa che la verità è un'altra e che era necessario comunicare una vicenda del genere, sia essa reale o una balla colossale, per coprire un'altra storia.
Ai misteri e alle incongruenze si è ora aggiunta un’ipotesi rilanciata dal quotidiano popolare tedesco Bild, secondo il quale Navalny sarebbe morto “forse poco prima di una sua possibile liberazione” nell’ambito di uno “scambio di detenuti” tra Usa, Russia e Germania.
“Putin voleva riavere l’assassino di Tiergarten”, Vadim Krasikov, sicario accusato di aver freddato un dissidente georgiano-ceceno. “Lo ha persino accennato pubblicamente in un’intervista con Tucker Carlson. Si parlava della possibilità che Putin, in cambio, rilasciasse Navalny”, scrive il sito del giornale senza fornire altri dettagli in proposito.
Navalny, è il ragionamento della Bild, è morto nel giorno dell’apertura della conferenza di Monaco. Solo due giorni prima, era circolato sui media un no-comment del Cremlino su un possibile scambio di prigionieri con gli Stati Uniti che chiedono il rilascio dell’ex marine Paul Whelan e del giornalista Evan Gershkovich, entrambi detenuti nelle carceri russe con accuse di spionaggio. Il giorno prima il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva dichiarato di aver parlato con Whelan in una rara telefonata concessa dalle autorità russe.
Il team di Navalny non ha dubbi che l’oppositore sia stato deliberatamente ucciso e accusa le autorità di non volere riconsegnare il corpo alla famiglia per “nascondere le tracce” del delitto. Il lungo viaggio notturno intrapreso dalla madre di Navalny e dal suo avvocato verso il distretto artico di Yamalo-Nenets, dove sorge la colonia penale IK-3 di Kharp in cui era rinchiuso, non ha fruttato notizie certe, a parte la conferma della morte, comunicata ufficialmente alla donna.



Dall’altro lato, è bene ricordare che Navalny era comparso in udienza il giorno precedente al decesso ed era sembrato in ottima salute. Misteri, sospetti e incongruenze che le autorità russe non stanno aiutando a fugare.
Quindi, alla luce delle poche e confuse notizie che abbiamo chi può aver eliminato Navalny?
Proviamo a fare qualche ipotesi:
1- I Servizi Segreti inglesi e/o americani l'hanno ucciso per sputtanare Putin, che aveva guadagnato popolarità dopo la famosa intervista ed in vista della Conferenza di Monaco, per favorire ulteriormente l'appoggio europeo a Kiev e, quindi, l'invio di nuovi armamenti all'Ucraina. Il fatto sarebbe potuto avvenire proprio durante l'udienza, magari tramite un "avvelenamento invisibile", causato da un agente presente e/o con la complicità di oppositori interni infiltrati.
2- I Servizi Segreti russi, su ordine dello Zar, lo hanno eliminato definitivamente per dare un esempio di supremazia totale a chi nutriva speranze di un cambiamento all'interno della Russia ed a chi osasse dissentire.
3- Navalny in realtà non è morto. Tutti gli attori in campo sono concordi nella veicolazione della sua morte, perché essa nasconde un importante scambio di prigionieri tra paesi avversari. La Russia non avrebbe mai ammesso pubblicamente di aver ceduto al compromesso, ovvero liberare agenti CIA sotto copertura, mostrando così il suo lato debole ai sostenitori, e il resto del mondo implicato in cambio avrebbe potuto continuare a dire "HA STATO PUTIN", oltre alla liberazione di suoi uomini.
Il fatto è proprio questo, perché ad entrambe le fazioni in campo giova questa narrazione.
Navalny è un agente infiltrato e bruciato da anni, diventato un simbolo contro la Russia di Putin, e poteva essere utilizzato solo come merce di scambio. La Russia avrebbe riavuto suoi uomini dei Servizi.
Un gioco delle parti avvenuto migliaia di volte, attraverso false narrazioni volutamente veicolate da entrambe le parti, informandone il mondo, come se ci tenessero a farci sapere una storia che poi non corrisponde mai alla verità.
Ecco, io propendo proprio per lo scambio di prigionieri, anche perché in parte era trapelato in modo indiretto dall'intervista e dai media. Non solo, penso che la 3° ipotesi sia ancora una mezza verità, penso che lo scambio non riguardasse solo uomini dei rispettivi Servizi, ma il futuro dell'Ucraina, della guerra, in un'ottica più geopolitica.
Ai posteri l'ardua sentenza...





lunedì 12 febbraio 2024

LA MANIPOLAZIONE DEL LINGUAGGIO NELL'ERA DEL CONFORMISMO GLOBALE di Simone Galgano


LA MANIPOLAZIONE DEL LINGUAGGIO NELL'ERA DEL CONFORMISMO GLOBALE
di Simone Galgano
Pubblicato il 9 Febbraio 2024 da IN ESERGO
https://www.inesergo.it/manipolazione.html?fbclid=IwAR0PZHldpCFFd_ZYvZADu518A0PcnEwRlZgVP7PK81dHINXzMxfVmB1Iy34


Una società mondiale che auspica un cambiamento epocale necessita di una netiquette spalmata su tutti i fronti. Per esorcizzare risvegli dal sonno della ragione dei popoli, la priorità è costruire dal basso una serie di regole civili che vengano accettate e metabolizzate. Cambiando il linguaggio si può a lungo termine intervenire sul pensiero delle persone che, poco alla volta, non sentiranno alcuna esigenza di riscatto al cospetto di qualsiasi autorità vigente, dalla politica al lavoro, dall'economia al percepirsi individualità con diritti sociali inviolabili. Per questo motivo, e a fronte di una massiccia industrializzazione globale futura, il complesso industriale multinazionale ha battezzato la parola magica green per coprire un maggiore inquinamento e giustificare futuri licenziamenti di massa.
Una filosofia politicamente corretta e affine al potere costituito è lo strumento base per lavorare e ragionare sul futuro di un mondo nel quale i sistemi politici di ogni nazione si vorrebbero sempre più sovrapponibili. Il politicamente corretto, nel suo palinsesto linguistico, non può che diventare il male assoluto, soprattutto perché è scorrettissimo quando si trasforma in arma contro le opinioni divergenti, con la malafede di pretendere di difendere le minoranze: non difende affatto le cosiddette minoranze, non migliora il linguaggio e le usanze delle persone, ma abitua nel tempo l'individuo a normarsi e conformarsi. Vince metaforicamente e comunque sempre chi è più ricco e performante: questi avrà sempre i mezzi per scusarsi in maniera politicamente corretta nel caso uscisse dai binari prestabiliti.

Una sorta di kalamométrion sociale per fagocitare i cattivi pensieri dei potenziali disturbatori e dei loro seguiti. Ne nasce un moralismo Giano Bifronte, con una faccia per le classi subalterne, un'altra per le classi dirigenti, ma (più si sale verso l'alto) con una grande anarchia del potere e dei comportamenti. Una forma di bigottismo laico che sostituisce i veli sulle statue nude del fu Savonarola. Perché un conto è non offendere minoranze o determinate categorie con un linguaggio violento, rispettando qualsiasi orientamento sessuale, religioso, etnico, un altro è pensare di cambiare il linguaggio forzatamente, scontentando tutti per fingere di difendere i presunti indifesi. Quindi creare un poco alla volta un vocabolario di Stato più consono e supino al sistema neoliberale, oggi decisamente più elitario, esclusivista, censorio e oscurantista. Anche in questo caso, come per quelli sopraccitati, il grimaldello linguistico serve a preparare il terreno del nuovo cittadino a norma, per osmosi, più mansueto, impersonale e controllabile.
La neurolinguistica applicata alla politica trasversale, quella che si accetta a prescindere dalla governance di turno, quella che si respira grazie ai media che fanno da cassa di risonanza, quella pensata nei salotti buoni da demiurghi a noi lontani, si trasforma in una mannaia che colpisce chiunque dissenta o esprima criticità politiche e antisistema: si passa sempre più velocemente dalla pretesa di coprire le vergogne alla censura di chi vuol scoprire vergogne più pesanti, mettendo in discussione lo status quo, per esempio sul piano economico e dei diritti dei lavoratori o della difesa dello stato sociale. Soprattutto, si abitua l'utente medio a non pensare con la propria testa e con le proprie pulsioni, a scremare qualsiasi sfumatura e ad agire in automatico, come appunto una macchinetta o un soldatino, accumulando nel tempo aggressività inespressa. Aggressività che poi si sfogherà su chi non concorda con il pensiero unico previsto e vigente, in una sorta di modello simile al famoso Villaggio dei dannati, delatori compresi.

Concettualmente un paradigma reazionario, ma vestito di tutto punto. Non puzza, è neutro, ma poi si trova concorde in qualsiasi orrore espresso dal mainstream, legittimato dall'essere il primo della classe. Un mondo politicamente corretto è il paradigma auspicabile dal potere per gestire la psicologia di massa in tempi pseudo-democratici. Questo conformismo tipico dell'opulente occidente si riverbera in ogni settore, perfino nell'arte, nella musica, nel cinema, nella letteratura, divenendo patrimonio comune e condiviso. Una cura Ludovico allargata, ma più sottile e strisciante.
L'importante è rimpicciolire il range di possibilità di analisi e di comprensione, usando lo schema dei buoni e cattivi, del bianco e del nero come unici colori possibili, come unico sistema possibile, che sfocia nel pensiero conformista della serie: c'è un invaso e un invasore, siamo in presenza di un cambiamento climatico per colpa delle persone comuni, se non ti vaccini muori, fino al se sei povero è colpa tua. Non esiste, fateci caso, l'unico politicamente corretto che servirebbe: quello sulla povertà e sulla dignità economica. Tutte le forme linguistiche di propaganda che partono strumentalmente da presunti diritti civili, senza mai risolverli realmente ma limitandosi ad annunciarli (acuendo le divisioni tra gli individui), giungono a plasmare un pensiero unico su altri fronti, ritenuti al vertice più interessanti.

Per questa restaurazione antropologica, l'ancien regime transnazionale da tempo manipola il senso di colpa del variegato quanto confuso mondo progressista, più plagiabile e predisposto a credere di votarsi al bene comune. In piccolo, il sistema strumentalizza i sacrosanti diritti civili, svuotandoli del loro vero impatto egualitario tra le persone, sostituendoli con il decalogo dei comportamenti da utilizzare, pena la scomunica sociale. Ci troveremo alla fine in un mondo dove dovrai pesare il linguaggio come si pesa l'oro, facendo salti mortali per non offendere il fantomatico dittatore nano del Katonga - perché è nato in un paese sfortunato e perché non puoi definirlo “nano” - bensì appoggiandolo perché magari ci vende il petrolio al miglior prezzo, sulla pelle dei suoi abitanti. 
L'astrazione del sistema si materializza e si legittima dividendo il teatro tra buoni e cattivi e, per osmosi, legittimando gli orrori che produce, facendosi accettare come unica autorità possibile.